Io sono un clown

Io sono un clown.

Inafferrabile e sfuggente, che gongola mentre destabilizza, ambiguo, inavvicinabile, imprevedibile, spaventoso, aggressivo, pericoloso, con un macigno sul cuore incapace di infrangersi.

Io sono un clown.

In attesa dell’attimo in cui l’amore fluisca liberamente, prima attraverso gli spiragli tra le rocce della razionalità, fino a diventare una forza inarrestabile che le devasti e le spazzi via una volta per tutte.

Io sono un clown.

Malinconico e addolorato, tradito e traditore, ferito e feritore, imprigionato, in gabbia con un cappio attorno al collo soffocante, in attesa di due occhi che lo guardino in profondità e trovino la chiave del suo cuore.

Io sono un clown.

Un buffone vigliacco, in fuga da se stesso, in fuga dall’amore, in fuga dal mondo, individualista, sfacciato, ambizioso e disperato allo stesso tempo.

Io sono un clown.

Un ossimoro vivente, una cazzo di contraddizione su due gambe, irrequieto, arrabbiato, in attesa di schiantarsi contro un muro, farsi male, curarsi, rialzarsi e ricominciare di nuovo, allo stesso modo e in modi diversi, fino alla fine del tempo, fino alla fine del tempo.

Io sono un cazzo di clown, un cazzo di clown patetico che si ama profondamente.

 

Promemoria sull’invidia

L’invidia è una frustata che ferisce profondamente, che stordisce e che a volte spaventa, soprattutto da chi non te l’aspetti, da chi ha sempre ribadito che gli manca l’ambizione, che gli interessa una vita tranquilla e serena, senza i fastidi e le fatiche che la voglia di migliorare la propria condizione e di mettere a frutto i propri talenti inevitabilmente causano.

Eppure, la gioia di un buon risultato, che spontaneamente a volte vogliamo condividere con gli altri, non è sempre cosa gradita. Qualcuno può sentirsi sminuito, inconsapevolmente. E velatamente te lo fa capire, magari sotto forma di una battuta ben mascherata, che però purtroppo a me non sfugge mai.

Non sono un santo: lo sono anch’io invidioso, lo sono stato, lo sarò, ma ormai prendo come regola ferrea il fatto che tutto quello che mi ferisce in fondo appartiene anche a me, che posso aver ferito a mia volta allo stesso modo o forse anche in maniera più crudele, che le ferite dell’anima sono uno squarcio da attraversare per uscirne rinati e più sereni. Non più forti, ma più in pace con il mondo, più centrati. Sicuramente però mi ricordo di un’altra cosa molto importante, ossia che ciò che invidiamo è quello che non ci appartiene. Ecco perché ormai, da un po’ di tempo a questa parte, mi concentro su quello che so fare, su ciò che è mio per davvero, e lo coltivo e lo faccio crescere. Chissà se riuscirò ad avere cura di questa pianta, se si svilupperà, chissà se sarà il caso o meno di fermarsi un attimo a pensare. Sicuramente sì, questo fine settimana sarà dedicato a tutt’altro.

Eppure fa sempre male, quando ti rendi conto che una persona che reputi amica e disinteressata, è in realtà invidiosa di un tuo successo. Fa male perché è una persona che hai perso, ed è un nuovo lutto da elaborare, perché d’ora in avanti, dovrai pensare anche a tutelarti e a difenderti da questa persona di cui un tempo ti fidavi, mantenendo una salutare distanza su certi temi.

D’accordo, galleggiamo in questa delusione, finché non arriverà la schiarita. Nel frattempo, visto che qualcuno ha aperto questa porta per me, mi accomodo in questa stanza buia e aspetto con pazienza e sopportazione che faccia giorno per vedere dov’è l’uscita, ma soprattutto dove si affaccia.

Che post strappalacrime, a volte so essere anche peggio di Massimo Gramellini e di Stella Pulpo, a cui, sotto sotto, voglio anche un po’ di bene.

 

Sfigo Ricky – Capitolo 3 – L’orrido abbigliare

Il richeo abbigliare è un’altra delle preponderanti peculiarità che contraddistingue la sua persona.

Svariate sono le caratteristiche degli indumenti da lui indossati che ne conferiscono un ulteriore decremento per quanto concerne il suo decoro.

Si parte innanzitutto dalle camicie, sovente confuse per tovaglie, a causa della presenza fissa di righe o quadrettini che le rendono sgradevoli agli occhi. In svariate circostanze, i suoi compagni, durante le lezioni, solevan fingere di cibarsi sulla richea schiena, additandolo perciò a guisa di un becero tavolo imbandito in una sordida bettola.

Un paio di scarpe gioca un ruolo fondamentale nel picconare la richea onorabilità: nere, alte e logorate, parevan queste ultime provenire dal fondo d’un lago, nel corso di una battuta di pesca. Difatti, usavano i suoi compagni soprannominarle “Le scarpe del lago di Como”.

I pantaloni concludono la vagonata di aberrazioni vestiarie, a cagion dei loro bizzarri colori, totalmente inimmaginabili su un paio di calzoni.

La combinazione di questi elementi dà luogo ad un ulteriore baluardo che caratterizza il richeo nella scelta dei capi di vestiario: la totale aleatorietà con cui questi ultimi vengono prelevati dall’armadio e indossati. Sovente, egli non mostra la minima attenzione negli abbinamenti, presentandosi in svariate occasioni coperto di tessuti dai colori il meno possibile concordi tra loro, dando luogo a risultati atti a scatenare le risa del circondario. Si rimembrano a tal proposito un paio di avvenimenti che mettono in luce questo deficit, secondo alcuni cagionato da daltonismo, secondo altri arrecato dalla sua intrinseca sfighità, feconda madre degli innumerevoli baluardi elencati in cotale testo.

Il primo evento riguarda una serata presso il cinematografo. Il nostro, ritardatario cronico, a cagion del suo solito prepararsi in fretta e furia, si presentò affannato e grondante di sudore all’appuntamento. Un giaccone lungo, dovuto al rigido clima invernale, non lasciava trapelare inizialmente nulla. Giunti però nella sala in cui sarebbe stata proiettata la pellicola, era giunta per il richeo l’ora di liberarsi dell’ingombrante giubbotto. E quell’evento fu, per l’autore e i suoi compagni, come scartare un ghiotto cioccolatino dal suo involucro. Il richeo presentava un abbinamento di colori che lo rendevano una bizzarra e ignomignosa macchietta: calzoni rossi, scarpe nere e maglione blu. La sua immagine rimandava a quella di un zotico e aberrante giocatore di golf. E tra le risa generali e i frizzi e i lazzi al fulmicotone, i suoi compagni proferivano:

– Ricky…ma come cazzo sei vestito?

– Eh…ho fatto di fretta…

– Dove hai lasciato le mazze?

– Mah…WAAAAAAAAAAAAAAAH!

– Mi passeresti un driver?

– La mia dignità ormai è andata…

Un altro episodio, forse il più emblematico tra gli innumerevoli, concerne una mattinata nei pressi della sua università. A causa della prematura ora mattutina, l’autore non aveva fatto inizialmente caso a come il richeo amico avesse deciso di agghindarsi. Ma, nel corso delle lezioni, qualcuno gli fece notare con diplomazia ed educazione, sussurrandogli: – Ma come cazzo si è vestito oggi Ricky?

E lì che gli occhi di entrambi si rivolsero verso la richea sagoma, lasciando loro sbalorditi e attoniti: il nostro presentava un paio di pantaloni verde chiaro acceso, con su una camicia bianca a righe blu verticali. Era ancora inverno. Il tutto rimandava ad una paesaggistica quanto inaspettata e nostalgica immagine estiva: il suo vestire rimembrava una sedia a sdraio posta in mezzo a un prato. Qualcuno proferì, al termine delle lezioni:
– Ricky…certo che hai un coraggio a vestirti così…- Ma il richeo difendeva a spada tratta i suoi indumenti, cercando di portar invano avanti la tesi che quella degenerazione di pantaloni fossero all’ultimo grido e indossati ormai da una buona fetta della popolazione. Ma l’autore non mancò di fargli notare che, se si fosse guardato nei paraggi, nessuno all’infuori di lui, nel raggio di chilometri, indossava quell’immondo capo di vestiario. Giunse l’ora di pranzo, e i nostri recaronsi nei pressi della mensa. E lì probabilmente, il fato o una forza o un’entità superiore miseci la mano. Il richeo aveva ordinato un trancio di pizza. Mentre cercava, con impacciate manovre, di prelevare l’insalata e di porla sul vassoio su cui già giaceva il pezzo di margherita, un colpo fortuito fece rovesciare quest’ultimo sui suoi orridi pantaloni, tramutandoli all’istante in una sorta di bizzarra bandiera dell’Italia. Le risa e gli scherni raggiunsero livelli mai visti in quella circostanza. Qualcuno osò dire che i pantaloni avevano subito un netto miglioramento. Qualcuno pensò che fosse stato un segno del destino o perché no, una punizione divina. Qualcuno intonò l’inno di Mameli. E in ogni caso, come un sol uomo, molti eran concordi sul fatto che quelle terribili braghe avevano fatto la fine che meritavano.

Il richeo, una sera, volle porre rimedio alle terribili figure fatte in precedenza. Recatosi assieme ai suoi compagni presso un pub per una birra, magari anche perché in quella circostanza presentaronsi alcune esponenti del gentil sesso, il richeo volle tentare di mostrarsi alla platea con un tocco di classe: camicia bianca, jeans e giacca elegante. I suoi compagni e le ragazze presenti, inizialmente, complimentaronsi con il nostro per la scelta dell’abbigliare, una volta tanto dettata dal criterio e non dalla casualità e dal caos. Qualcheduno però, dopo un’analisi più approfondita degli indumenti che ricoprivan il suo buffo corpicino, obiettò e scoprì un’altra strampalata chicca da aggiungere all’ormai innumerevole elenco di baluardi: il richeo amico era abbigliato a guisa d’un agente immobiliare. Quando, con la consueta impertinenza, glielo si fece notare, il richeo si inginocchiò e, con il solito suo fare implorante, esplose in un lamento irritante, stupito. Chiedeasi il nostro in cosa avesse fallito in quella circostanza, convinto che con quell’abbigliare avrebbe cambiato l’opinione dei suoi critici compagni, che però avean trovato un’ulteriore ragione per scalfire il suo onore.

 

Sakè

Sakè, questa sera. Piccolo. Tre ochoko e mezzo. Quanto basta per inebriarsi.

Sakè, questa sera. Per vincere l’inevitabile noia della solitudine.

Sakè, questa sera. Per spegnere la fiamma del mio ardente desiderio, almeno per un po’.

Sakè, questa sera. Perché la domenica volge al termine.

Sakè, questa sera. Per mettere a tacere la voce sussurrante del mio daimon, che mi spinge incoscientemente verso il mio destino.

Sakè, questa sera. Per trasformare la paura in dolore.

Sakè, questa sera. Per essere grati a Dio.

Sakè, questa sera. Per celebrare la vita.

Sakè, questa sera. Per dimenticarsi dei sensi di colpa.

Sakè, questa sera. Per sciogliere il nodo che ho in gola e tramutarlo in lacrime.

Sakè, questa sera. Per dimenticare, almeno per un po’, che prima o poi la festa finisce.

Sakè, questa sera. Il sangue di un Cristo orientale. Per non perdere la speranza del Dopo.

 

Sfigo Ricky – Capitolo 2 – Lo Spiovente

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Lo spiovente costituisce probabilmente la principale peculiarità della richea morfologia. Come mostrato in figura, costituisce un’anomalia piuttosto evidente che lo rende un caso quasi unico nel suo genere.

Il primo ad accorgersi di tale caratteristica è stato il Dottor Celenza, detto Il Criceto. Un dì, mentre ci si accingeva a una seduta di gruppo di studi sfigo matematici, egli fece notare ai presenti un inquietante aspetto: la richea nuca presentava un terribile parallelismo con la parete adiacente a quest’ultima.  – Guardate il cranio di Nash! , pronunciò birichino Il Criceto, suscitando la curiosità dei presenti.

E’ necessaria, prima di proseguire, una doverosa digressione. John Nash costituisce il più antico dei richei soprannomi. Fu attribuitogli a causa delle sue notevoli capacità nel risolvere problemi matematici e fisici di estrema complessità. Nel corso di una lezione di informatica, fu il solito Criceto a presentarlo al docente, proferendo: – Prof. Lui è John Nash!, il quale, in tutta risposta, dichiarò: – Spero meno pazzo!. Mai speranza fu più vana, né risposta più profetica. Sovente, il nostro era chiamato Johnny da parte di Manganello,  ultras sfegatato del Milan, naturalmente assolutamente ignaro su chi fosse il vero John Nash. Stiamo parlando di un individuo che una volta, interrogato su come avesse passato il fine settimana, rispose all’autore con la seguente frase: – Ho usato il pene!

Ma non divaghiamo. In quell’istante, mai il nostro richeo amico avrebbe immaginato le conseguenze di poche parole messe alla rinfusa da parte del suo minuto collega.

Nei giorni a venire, le cricètee parole, apparentemente innocue, avevano maliziosamente stimolato la creatività dell’autore. Ai tempi, si era usi  disegnare caricature dei colleghi universitari e dei docenti più buffi che occupavano l’aula durante le tediose ore di lezione. Erano momenti in cui a stento si trattenevano le risa, con il grosso rischio di essere malamente cacciati dal docente di turno. In tutto questo, si soleva raffigurare il richeo volto unicamente mediante una rappresentazione frontale. La cricètea osservazione sulla conformazione cranica del Ricky fornì un punto di vista innovativo, alla stregua di una nuova corrente pittorica. Per l’autore fu un momento di transizione, un po’ come un Picasso che lascia alle sue spalle il periodo rosa per entrare di prepotenza nel cubismo. Da quel momento, si cominciò a mettere a frutto una rappresentazione laterale del richeo volto, essendo il profilo ben più ricco di dettagli capaci di fargli perdere la dignità, suscitando le risa di coloro che gli stavano attorno. Nelle frequenti rappresentazioni, la nuca, paurosamente verticale e pertanto denominata lo spiovente, era solitamente l’ultima ad essere tracciata, ma non per questo si dava minor importanza ad essa. Al tenue tratto atto a demarcare gli inconfondibili lineamenti del viso, seguiva un violento quanto rumoroso procedere verticale della penna, che rompeva prepotentemente la tensione accumulata fino a quel momento, mettendo inesorabilmente nero su bianco la terrificante verticalità della cervice. Era proprio l’echeggiare di tale suono a cagionare il maggior scalfirsi della richea dignità, mentre i suoi compagni esplodevano in una risata liberatoria. Il richeo amico reagiva con smorfie di disperazione, alla ricerca di un’onorabilità che cominciava pericolosamente ad oscillare.

Sovente, il richeo amico veniva raffigurato sempre di profilo, ma con il corpo di un ortaggio, il più delle volte una Daucus Carota, spesso dovuto ai bizzarri colori vegetali con cui soleva abbigliarsi, tematica rimandata al capitolo successivo. In altre occasioni, si era soliti riprodurre il richeo profilo alla stregua di un monte dei suicidi, aggiungendo al suo volto dei simpatici ometti stilizzati sul capo, mentre si lanciavano disperati lungo lo spiovente. In altre occasioni, a causa della tendenziale richea lamentosità, l’autore, per smorzare le sue geremiadi, lo invitava a non avere il primato della sofferenza e per rafforzare il messaggio, armato di gessetto, riproduceva alla lavagna il richeo profilo su un ipotetico podio del dolore, naturalmente medaglia d’oro. In queste occasioni, il richeo non ci vedeva più dalla frustrazione e fuggiva via inviperito dall’aula presso cui si era recato per una sessione di studi. Infine, la verticalità della nuca, unita alla forma tendenzialmente rettangolare del richeo cranio, permetteva a quest’ultimo di essere trasformato secondo Fourier, ottenendo nel dominio delle frequenze un cranio avente forma di seno cardinale.

Nel prossimo capitolo, ci occuperemo di un altro baluardo che ha contribuito a scalfire la dignità di Ricky: l’abbigliamento.

Cosa resta di un amore

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Al cinema, i tuoi occhi nei miei, il tuo sorriso, nelle luci soffuse della sala.
Una passeggiata in silenzio, in un piccolo paese di provincia sconosciuto, abbandonato e deserto.
Un viaggio in treno, mentre ti chiudi nei tuoi silenzi riflessivi, mentre le mie braccia ti cingono da dietro e posi le tue mani sulle mie.
Una chiacchierata al bar, mentre beviamo Coca-Cola Zero.
La prima volta che abbiamo dormito insieme, avevo paura, il tuo sguardo mi trasmetteva forza e mi rassicurava, mentre indossavi una maglietta color salmone.
Godere e venire insieme, al mattino, appena svegli.
Il tuo abbraccio e la tua frase:- Lasciami essere felice per altri venti minuti.
Quando hai perso le staffe per le mie provocazioni e mi hai chiamato “pezzo di coglione”.
Poche foto di te, poche ma buone.
Un’unica foto di noi due insieme.
La tua accettazione dei miei limiti.
La tua assenza di giudizio, il tuo sguardo benevolo, quando ti ho raccontato della mia notte dell’anima.
La tua autoironia, la tua simpatia.
Il tuo farmi sentire unico, speciale, diverso, intelligente.

Tutto questo è parte di me ora.

Grazie.

La Posta di Dino

Quest’oggi, inauguro una nuova rubrica: La Posta di Dino .

Siamo tutti afflitti e portatori di un grande dolore interiore, una ferita emotiva che non abbiamo il coraggio di ascoltare e di guardare in faccia. E’ per questo che mentiamo a noi stessi e agli altri. E’ questa la ragione per cui le nostre intere esistenze spesso sono una gigantesca menzogna e appartengono ad altri.

Scrivetemi e portatemi pure le vostre paturnie, le vostre preoccupazioni, le vostre ansie, le vostre difficoltà relazionali. Vi risponderò rispettando la vostra privacy e con lo stile di questo blog: profondo, attento, sensibile e al contempo dissacrante, cinico, provocatore.

Nella speranza di strapparvi una risata e una riflessione.

Scrivete a: dinoveniti@gmail.com .

Stella Pulpo

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Quest’oggi vi parlerò di Stella Pulpo, una scrittrice e blogger tarantina, che negli ultimi tempi sta avendo un certo successo e consenso, grazie al suo blog Memorie di Una Vagina . Il suo blog, ormai molto conosciuto, tratta diverse tematiche, tra le quali femminismo, sessualità, politica e società. La sua scrittura profonda e graffiante, unita a un carattere sensibile e al contempo frizzantino le hanno procurato moltissime ammiratrici e ammiratori, ma al contempo anche tanti nemici. Tra questi ultimi, vi sono uomini che non condividono le sue opinioni femministe, alcuni che le augurano di morire grassa e donne che la accusano, nelle sue storie su Instagram, di camuffare il suo accento pugliese. In merito a quest’ultimo punto, da ex-pugliese, ovviamente condivido in pieno la scelta consapevole di Stella di mascherare il più possibile la sua cadenza. Lo so con certezza assoluta che lo fa volutamente. E’ la stessa scelta che ha fatto il sottoscritto, per cui sono contento che anche lei provi la mia stessa vergogna per le sue origini. Inoltre, essendo ormai Stella un personaggio pubblico di un certo spessore intellettuale, ma soprattutto vivendo ormai da tanti anni a Milano, è giusto che non involgarisca la sua immagine parlando nella maniera sguaiata tipica dei pugliesi, in modo da integrarsi nei salotti buoni del meneghino.

Purtroppo, se da un lato la nostra Stella mostra un incredibile impegno e dedizione nel cercare di guarire dai suoi difetti di pronuncia, non si può dire altrettanto dei contenuti del suo blog.

Non mi riferisco alle sue battaglie femministe, che, lo rivelo qui in esclusiva, sono un chiaro specchietto per le allodole.

Il suo blog ha in realtà un progetto politico ben chiaro e molto pericoloso, costituendo principalmente un gigantesco manifesto nostalgico della Puglia. In un post recente, Stella scrive quanto segue:

[…] la suggestione irriducibile delle radici, quella specie di malcelato orgoglio del tipo: io questa terra ce l’ho nel sangue, e altre menate retoriche di questo tipo. Il Gargano selvaggio mi resterà nel cuore, con le sue strade di merda e i suoi panorami meravigliosi.

Insieme ad esso conservo gelosamente le chiacchiere con i miei genitori, con i miei zii e con i miei cugini. Gli sfoghi, i chiarimenti e le risate. I panzerotti fritti, i nodini di mozzarella, le friselle, le cozze al gratin, le turtarelle, gli arrosticini e le bombette che rappresentano ancora una valida ragione per restare carnivori. I bagni al tramonto. Gli spritz con le chiappe ancora umide. Le cene in terrazza. Le partite a carte. Le passeggiate. I Moscow Mule creativi. I fuochi d’artificio. Le torte di mia mamma e il capocollo locale. Le dormite al fresco e i libri letti in piscina. La fuga a Taranto, in litoranea, per raggiungere gli amici del nord al sud, e rivedere quello che ho sempre considerato “il mio mare”. L’azzurro, le dune, il traffico, i parcheggiatori. Le buche nell’asfalto, le rotatorie e fai-attenzione-all’autovelox. E poi la serata al Valentino, e le confidenze tutte condensate in poche ore, che ci siamo rivisti mò e poi chissà quando. Il rientro. L’alba che sorge sulla Valle d’Itria in tutta la sua maestosa bellezza. L’umido della notte che sponza i teli stesi ad asciugare. E ancora la fatica di spiegarsi anche quando è difficile trovare le parole, le confessioni, la complicità di chi è cresciuto insieme, i cazziatoni che fanno bene e i consigli, e poi i saluti, i buoni propositi per l’autunno, le promesse, e la solita domanda: quando ci rivediamo?

Presto. Qualunque cosa “presto” significhi.

Signore e signori, da questo e altri post emerge con chiarezza uno degli obiettivi principali del blog Memorie di Una Vagina:  l’esaltazione del mito del passato, che, come noto, è sempre stato il nocciolo duro del pensiero reazionario, populista e dei regimi nazifascisti.

C’è però un aspetto ancora più inquietante, per un ex-pugliese e neo-milanese come il sottoscritto, che emerge in maniera lapalissiana in quest’altro post. La nostra reazionaria mascherata da progressista prende di mira, con l’acredine tipica dell’elettore grillino meridionale, l’ArcelorMittal, già Italsider e Ilva, affermando quanto segue:

Nel corso del tempo, la città e la cittadinanza si sono trasformate in un accessorio della fabbrica, un agglomerato umano che vive e muore in funzione della produzione dell’acciaio. La mia città è come un inventario disgraziato di uomini, e donne, e bambini, da sacrificare sull’altare del Capitale. Immolati in nome di Madre Economia. Fine della storia. 

E’ incomprensibile come la Pulpo, da milanese acquisita, non riesca a capire come in realtà l’ArcelorMittal ha garantito in tutti questi anni occupazione e benessere alla sua città. Grazie all’ex-Ilva, potremmo, da pionieri, definire Taranto come La Milano delle Puglie.

Sempre nel medesimo post, ecco una seconda pericolosa generalizzazione, in merito alla definizione che la Pulpo dà dell’imprenditore:

[…] uno che per definizione pone come primo (e spesso unico) obiettivo il profitto. Non il benessere del territorio. Non la sicurezza dei lavoratori. Non la salute dei cittadini. Solo e soltanto il profitto incondizionato, in una repubblica fondata su connivenze e mazzette

Affermazioni vergognose con le quali si intende gettare fango su coloro che, mossi dalla passione, si prendono dei rischi per dare benessere economico e occupazione al nostro paese. Nello specifico, con quale coraggio la nostra scrittrice si permette di screditare il Gruppo Riva che, vogliamo ricordarlo, nel siderurgico è primo in Italia e quarto in Europa? Un gruppo mosso dalla fiamma ardente per il lavoro, fondamento dell’Articolo 1 della nostra bellissima Costituzione. Potremmo aggiungere che quanto afferma Stella Pulpo è palesemente incostituzionale e per questa ragione, il suo post sarà portato alla Consulta quanto prima per essere abrogato.

Il profitto è cosa nobile, forse è tutto quello che abbiamo come esseri umani, e lei stessa dovrebbe averlo imparato bene, vivendo a Milano come il sottoscritto. Se la gente si ammala, la colpa è unicamente e solo dei tarantini. E la ragione è la seguente: come si permettono gli abitanti del quartiere Tamburi e i dipendenti dell’ex-Ilva di respirare? Possibile che in tutti questi anni non abbiano imparato a trattenere il fiato? Si può sapere perché i meridionali sentano questa necessità impellente di fare altro mentre sono al lavoro? Non c’è niente da fare. Anziché ringraziare chi dà loro un’occupazione, consentendo di mantenere le loro famiglie, tipicamente numerose con figli, genitori e suoceri a carico, pretendono anche l’aria pulita e l’ossigeno. Questo è davvero troppo.

In ogni caso, dal post emerge il secondo punto del progetto politico che si propone il blog Memorie di Una Vagina: rafforzare l’assistenzialismo di stato, sulla falsa riga di quanto già fatto dal governo Conte 1. L’obiettivo è chiaro: puntare alla chiusura definitiva di ArcelorMittal, in modo che i tarantini smettano di lavorare in massa e vivano di reddito di cittadinanza.

Possiamo concludere, senza ombra di dubbio, che Stella Pulpo, oltre a essere una spia pugliese infiltrata nel meneghino, oltre a non essere una femminista, è una Nazifascista a Cinque Stelle.

Heil, Pulpo!

Preghiera del Dolore

pray.jpgCome si affronta il dolore? Può un uomo permettersi di soffrire? Come si fa quando ormai da mesi si ha questa stretta al basso ventre, che si dilata come una macchia di nebbia, che osservo e attendo che si trasformi in un nodo alla gola, che non sempre si rompe in un pianto liberatorio? Cos’è questo dolore? Chi è stato? Chi è che mi ha fatto così male?

E’ successo quella sera, a Palma di Maiorca. Buio totale. Il nero assoluto. Il Cristo di inferno. Rabbia, dolore, disperazione, pensieri suicidi. Ma perché, Cristo Santo? Che cosa mi ha terrorizzato così tanto? Che cosa mi terrorizza ancora? Cos’è che mi fa così tanta paura, cazzo? Non riesco a venirne a capo. E in questo momento, provo ansia e dolore. Che cosa la sta originando? Perché non si dirada, questa gran puttana di nebbia? Eppure sono fiducioso, ce la farò. Con l’aiuto di Dio e di Zeta.

Signore Dio Onnipotente, Re del Cielo, per intercessione di Gesù Cristo tuo figlio e della Vergine Maria, mi vuoi dire che cazzo devo fare per liberarmi di questo dolore atroce? Dammi un cazzo di segno. Mi stai facendo veramente incazzare ora. Amen, cazzo. Amen! Non è una bestemmia questa, fidati. E’ una cazzo di preghiera. Ti scongiuro ascoltami, aiutami. Ho bisogno di te, Signore! Ho bisogno di te, porca troia! Ascoltami Papà, cazzo!

Beh, grazie Signore. Come vedi non sono un ingrato. Avevo scritto quei versi dieci minuti fa. Mi sento un po’ sollevato. Ma non è abbastanza. Voglio essere libero, una volta per tutte, dalla paura. Dalla paura di amare. Dalla paura del dolore.

Va un po’ meglio, ma ancora non è sufficiente. Piango, ma ce n’è ancora. Ci sono degli arretrati da smaltire. Mi devo riabituare. Non è così scontato. Lascerò che accada. Adesso ho di nuovo un groppo in gola e ansia. Ma questa volta non farò finta di niente. Guarderò in faccia il mio dolore. Ed è già tanto che mi sto abituando un po’ alla volta a farlo. Ma è difficile.

Pigrizia, spossatezza, stanchezza. Va bene. E’ così che va. Accettiamolo. Non possiamo essere sempre a mille. Può succedere di essere stanchi. Non siamo super uomini. Accettiamolo. Non possiamo essere sempre a mille.

Amen.