Ciao Milano

Non sono molto ispirata negli ultimi tempi, sarà che aver lasciato la nostra vecchia Italia mi ha concesso di staccarmi dai quotidiani online. Sul serio, cari utenti e care utentesse, non ho la più pallida idea di cosa stia accadendo nel nostro Belpaese, sono venuta indirettamente a conoscenza di un referendum sulla giustizia, sul quale vi è stata una massiccia astensione, ma questo distacco dalla politica nazionale mi consente in generale di ritrovare una certa pace dei sensi, che mi permette nuovamente di fichettare come se non ci fosse un domani, sculettando in questa gloriosa Repubblica Federale parlando un buffo tedesco maccheronico che suscita l’ilarità delle mie nuove amiche bavaresi, che ho già conquistato con i miei capezzoli puntuti e il mio italico brio. Sono nuovamente eccitata come una scolaretta alla vista di Hans-Dieter, con quel suo capello biondo e quel suo occhio azzurro teutonico, che faceva bagnare le passerine di noi tutte ai tempi del Gymnasium.

In verità, sovente provo nostalgia, in particolare mi manca Milano, che ho lasciato come si lascia una relazione che ormai ha esaurito il suo scopo, una città che ho molto amato, nonostante le torride estati, la puzza del Parco Lambro e le fottute zanzare, le zanzare più ingorde e ciccione mai comparse su tutto il territorio nazionale. L’ho voluta salutare degnamente lo scorso anno, ripercorrendola da cima a fondo, in auto di sera in Tangenziale Est con Radio Millenium in sottofondo, entrando poi in città da Rubattino, attraversando Lambrate, Piola, Loreto, Corso Buenos Aires, Corso Venezia, per poi svoltare a destra in Via Senato verso Brera, per perdersi sulla circonvalla, figa, in quella città deserta in una sera d’estate che da ragazzina mi sembrava una metropoli, una città che ho letteralmente divorato in compagnia delle mie amiche, a caccia di piselloni neri tra l’Alcatraz, il Bobino, quel buco di culo del Birrificio di Lambrate e ritrovarla così piccola, così svuotata del suo scopo, con i locali chiusi a causa del covid, io sempre più vecchia e sola, lasciata in balia dei miei fantasmi anche dalla fedele Mariarita, convolata a nozze con Maicol pisellone, in una città divenuta sempre più invivibile per via di un costo della vita sempre più elevato e dei salari che continuano a comprimersi, una città che ho divorato per quasi vent’anni, ma dove lentamente ho perso pezzi importanti della mia vita, amici che prendono strade diverse, promesse non mantenute sul posto di lavoro, aspettative deluse, situazioni idilliache che diventano sempre più soffocanti e ingabbianti, amori profondi, scappatelle, temporanei ritorni di fiamma e amori di passaggio.

Insomma, cari utenti e care utentesse, non esiste un’unica ragione per cui si decide di cambiare vita, a volte va fatto e basta, per andare altrove e guardare con maggiore distacco alle cazzate che si fanno nella vita, per farsi sempre un po’ più schifo e rendersi conto, solo dopo, di essere stati patetici ed esagerati in certe circostanze, di aver commesso una valanga di errori, che, a Dio piacendo, non commetteremo più in futuro, ma ne commetteremo senz’altro di nuovi, forse addirittura peggiori dei precedenti, ma sempre sculettando e fichettando a destra e a manca, non conoscendo vergogna e perdendo rigorosamente e inconsapevolmente la nostra dignità.

Cambiare è difficile e c’è davvero da cagarsi nei pantaloni quando si decide di mollare tutto. I giorni prima della partenza ho provato momenti di acutissimo terrore, mi sono fatta più volte la cacca addosso, sovente piango ancora come una puttanella per la nostalgia e mi rendo conto che bisogna guardare con comprensione a chi decide di restare quarantadue anni nello stesso posto di lavoro del cazzo, tutta una vita in un matrimonio fallimentare dove le scappatelle sono l’unico momento di evasione, perché le nostre potranno essere anche delle prigioni, ma il problema è che sono comode.

Non so che altro dire, potrei minacciare per la terza o quarta volta di chiudere il blog, solo per il gusto di sentirmi dire che qualcuno di voi potrebbe sentire la mia mancanza.

Estate Bollente

Dopo il fresco insolito della scorsa settimana, finalmente un gradevole caldo darà un senso alle nostre estati. Quarantotto gradi, nel nome di Dio Onnipotente e di Nostro Signore Gesù Cristo! Avete atteso con ansia l’arrivo delle vibrazioni estive, finalmente in ferie, dopo un anno a svolgere il duro lavoro che tanto amate, no, com’è che dite voi, mentre vi fotografate in telelavoro sul balcone di casa dei vostri genitori, spacciandolo per la terrazza di una mansarda di lusso? Eppure la dura realtà è che nel corso di questa settimana passerete la notte a boccheggiare come malati terminali in attesa di esalare l’ultimo respiro, vi sveglierete più volte in una pozza di sudore, disidratati e assetati, con buona probabilità tormentati dalle zanzare che passeranno inesorabilmente nei pressi del vostro orecchio e non vi faranno chiudere più occhio, e le cercherete per ucciderle, quelle figlie di puttana, ma l’evoluzione ha fatto il suo corso, si sono fatte scaltre e imprendibili, quasi ai livelli delle mosche, quelle altre bastarde.


Cari utenti e care utentesse vacanzieri, leggete bene questo testo, sono esattamente queste le ferie che ci aspettano, non sarà qualcosa di diverso, non sarà riposante, non sarà rigenerante e torneremo in ufficio tra meno di due settimane ancora più incazzati di quando siamo partiti. Non devo certo dirvelo io, Paolo Villaggio ci ha costruito una serie di libri e di pellicole in merito ben più geniali di questo blog gestito da un’intelligenza artificiale che, tra parentesi, è in buona parte responsabile dei cambiamenti climatici del nostro pianeta a causa dei frequenti problemi di meteorismo della sua amministratrice.


Buona estate del cazzo a tutti! 😍🥰☀️🌊

Fonte: corriere.it

Turchia-Italia 0-3

Ieri sera abbiamo assistito a una grande prestazione degli Azzurri contro una Turchia che mi ha ricordato la mia compagna di liceo Irenelucia, ai tempi la secchiona della classe, rigida, frigida e impaurita dagli approcci degli uomini, motivo per cui si è sempre dimostrata chiusa e sulla difensiva, costantemente nella sua metà campo, non consentendo alla squadra avversaria di trovare un varco attraverso cui penetrare. Bene, tutto questo è avvenuto fino alla prima metà delle scuole superiori. Al termine del primo quadrimestre del terzo anno, Irenelucia ha conosciuto Giancosimo, studente del quinto anno che, con grande delicatezza e poesia, le ha insegnato a non temere di lasciarsi andare e ad aprirsi gradualmente. Inizialmente, Giancosimo l’ha invitata a procurarsi piacere da sé, in modo che potesse cominciare ad assaporare le gioie della sessualità. Irenelucia si è gradualmente aperta, dapprima dandosi all’autoerotismo, sperimentando il primo orgasmo autoindotto. Dopo diversi mesi, ha finalmente deciso di lasciarsi andare, concedendosi a Giancosimo. La prima volta, Irenelucia era alquanto tesa, oserei direi immobile, ma ciò nonostante, Giancosimo è riuscito a procurarle piacere, un piacere che ha consentito finalmente alla nostra amica di aprirsi completamente, finché, verso la fine dell’ultimo anno, Giancosimo e Irenelucia non si sono lasciati andare in un’insigne scopacciata, un amplesso consumato con eleganza e furia taurina, che ha consentito a Irenelucia di mettere da parte finalmente ogni tipo di inibizione

Scrivo tutto questo e mi viene in mente che faccio parte di quelle persone che finge di fregarsene del calcio per darsi arie da intellettuale e da persona mite. In verità, tendo spesso a dimenticare che Europei e Mondiali di calcio tirano fuori il peggio di me. Guardare una partita di calcio della nazionale con il sottoscritto significa assistere a uno spettacolo indecoroso, fatto di bestemmie, urla bestiali, vituperi e improperi basati su qualunquismo dozzinale, razzismo e stereotipi beceri sulla provenienza geografica della nazionale avversaria, infarciti naturalmente di commenti vergognosi sulla situazione politica del paese in questione, sulla sua forma di governo, sfociando talvolta anche in commenti spietati relativi alle credenze religiose, alle usanze e alle tradizioni.

Le partite della nazionale sono per me un autentico scontro di civiltà, in realtà un modo per vomitare tutta la mia frustrazione di una vita orribile e soffocante.

Mi sento meglio ad avervelo detto. Possa Dio avere pietà di me.

Culi e Alda Merini

La clausura forzata ha ancor di più amplificato la scissione tra virtuale e reale. Ormai è quasi un anno e mezzo che mi trovo rinchiusa nel mio monolocale, in un ambiente totalmente asettico e disinfettato, a prova di germi, batteri, virus, esseri umani. L’odore dell’altro da sé è ormai una remota rimembranza, neppur ricordo cosa voglia dire sfiorare la pelle e la mano di qualcuno e, tutto sommato, sono convinta di aver raggiunto il mio equilibrio, la mia serenità, il mio centro di gravità permanente, non ho più interesse nel relazionarmi con i cosiddetti “umani”, non sento più nulla, nessun tipo di pulsione. Del resto, che importanza potrà mai avere tutto ciò, quando si ha una connessione internet a tenerti compagnia, quando posso emozionarmi e riempire il mio cuore con le notizie frivole, gay-friendly, femministe e animaliste di Repubblica e del Corriere.

Mentre nuoto in questo mare magnum basato su una combinazione di zeri e uni, mi capita di passare dalle parti di Instagram, ove incappo sovente in procaci fanciulle come la sottoscritta, che accompagnano i loro autoscatti piccantini a citazioni colte, generalmente di Alda Merini, poetessa prediletta di codeste muse e giunoniche filosofe delle reti sociali. Mi manda in sollucchero il modo in cui costoro adoprano la loro profondità d’animo e la loro beltà sui social per infiammare i maschi di donna, marinai in questo oceano di informazioni, di seni e di glutei tonici e letterati, che conducono la loro barca con una sola mano, avendo l’altra impegnata in smanacciate effettuate con meticolosa dedizione, messe in atto con la maniacale accuratezza di chi vuole trascorrere ore alla ricerca dell’immagine perfetta prima di rilasciare la propria tensione, la propria libido, per poi sentirsi inutile e deluso dinanzi a quell’effimero piacere. Osservo questi maschi di donna, queste donne con il pene incapaci di sublimare la propria libido in visioni più alte e più costruttive, che si sperticano in commenti sulle foto di cui sopra fatti di complimenti, dal più becero al più affettato. Mi è capitato di leggere, sotto la foto di un paio di pere esibite con una certa sfacciataggine e prepotenza, il seguente commento di uno di questi piacioni: “una foto che sa di miele, paprika e abbracci”. Cristo Santo, fatti una sega e muto, razza di ipocrita, sepolcro imbiancato da chissà cosa!

Bene, mi sento di chiarire le idee a questi seduttori da quattro soldi e morti di fica: queste donne non ve la daranno nemmeno tra un milione di anni, foste anche gli ultimi rimasti sulla terra, stanno solo esercitando potere su di voi perché sono insicure esattamente quanto voi e hanno una patologica necessità di sapersi apprezzate da qualcuno, oltre ad avere un rapporto malato e di identificazione con la loro madre, ossia sono uguali alla loro madre o ne sono l’esatto opposto, poco importa, le estremità tendono spesso, molto spesso, a coincidere, purtroppo e per fortuna.

In ogni caso, faccio un appello anche a noi donne, noi donne forti, madri, eroine del ventunesimo secolo, multitasking, dolci, fragili, ma anche determinate, rialzatesi dopo essere cadute, sorelle in un mondo ormai pronto ad accogliere il nostro contributo, dopo millenni di patriarcato che ci ha schiacciate sotto il crudele giogo delle nostre madri. A mio modesto avviso, queste foto in costume, questi seni appena accennati, questi culetti sodi sono divenuti banali, è necessario passare a un livello successivo. Vi è ormai troppa scelta e un tale eccesso rischia di divenire un mare aperto che farà perdere di vista ai nostri pesciolini la loro destinazione, la terra promessa d’un gelido orgasmo in solitaria che non arriverà mai, in attesa di quella foto, in attesa de La Foto, in attesa del Godot della masturbazione perfetta.

Alziamo la posta, sorelle, alziamo l’asticella, soprattutto alziamo ancora di più la loro asticella: la mia proposta è quella di armarci di una macchina fotografica reflex, attrezzata con un dignitoso obiettivo, magari un 50 mm fisso, portare l’ISO a un valore pari a 100, in modo da minimizzare il rumore sale e pepe e realizzare un dettagliatissimo e minuzioso scatto della nostra fica da sbattere su ogni tipo di rete sociale. Quando parlo di scatto dettagliato e minuzioso intendo incrementare la chiarezza dell’immagine in modo che l’umidità della nostra pesciacchiella si possa quasi assaporare, toccare con mano, sotto forma di gocce sui nostri bei labbroni rossoni, a guisa di rugiada su un prato in una mattina d’estate. A questo, accompagniamo il tutto magari con un passo del Vangelo o, che ne so, dell’Eneide, dell’Iliade, qualsiasi cosa, pur di piantarla di menzionare costantemente quella rotta in culo della Merini o quello stronzo alcolizzato e tabagista di Bukowski, sperando di aver scritto correttamente il suo nome di famiglia.

Se siete dalla mia parte, se decidete di aderire a questa iniziativa, mandatemi pure il vostro portfolio, sarò ben lieta di darvi suggerimenti in merito.

Quest’oggi ho esagerato, togliete il like e segnalate pure questo blog. Ci vediamo al più presto nella vita reale.

“Oberdan si lamentava” di Francesco Berni: recensione

Quanto assomigliamo a Oberdan? Senza dubbio possiamo identificarci in questo giovane oste, nelle sue innumerevoli frammentazioni, nei suoi dilemmi interiori, che viviamo, che abbiamo vissuto, che vivremo, si spera, con sempre meno intensità. Oberdan ha appena cominciato un cammino che non si preannuncia facile: brama da un lato una vita tranquilla, una stabilità economica e familiare, uno stile di vita piccolo-borghese che forse lo annoierebbe dopo pochi giorni, dall’altro combatte per la sua osteria, una vera ragione di vita per lui, un’autentica ossessione. Ama profondamente la sua creatura e la difende a spada tratta, scadendo talvolta in meschinità dovute più alla sua immaturità che alla malafede. Il conflitto tra libertà e sicurezza si manifesta anche nella sua volontà di essere pienamente responsabile della sua vita, aspettandosi però ancora l’appoggio del “babbo” e della famiglia d’origine, con la quale non ha ancora tagliato del tutto il cordone ombelicale.

Eppure, Oberdan lotta, fa esperienza, forma il suo carattere, non sa esattamente ciò che vuole, ma cerca la sua identità, il suo posto nel mondo. Ci vorrà ancora del tempo, prima che Oberdan smetta di lamentarsi e diventi uomo, dovrà prendere ancora qualche bastonata dalla vita.

Tutto sommato, una storia autentica e sentita, un finale aperto, come piace a me, nella speranza che la vista, la vita, gli si schiarisca sempre di più e impari a combattere lealmente, anche contro delle carogne come l’assessore Brasile. E chissà se un giorno La Bionda sarà la sua musa e, in parte, contribuirà a rimettere insieme i cocci della sua personalità scissa.

Complimenti all’autore, Francesco Berni, come esordio non c’è male. Per aspera sic itur ad astra!  

Oberdan si lamentava , un libro che non dovrebbe mai mancare nelle vostre librerie.

Sempre che ne abbiate una, eh.

La Festa del Papà

A quanto pare, quest’oggi è la festa del papà. Una volta all’anno, ai padri è dedicata una giornata commemorativa, ma mi sento di dire che quest’oggi potremmo tranquillamente celebrare il nulla, visto che questa modernità ha reso i due termini praticamente sinonimi. Mi chiedo, cari padri, dove cazzo siate finiti. Qual è il vostro ruolo in famiglia, oltre a quello di “maschi di donna”, di gatti castrati, amebe prive di spina dorsale e autorevolezza, animali da compagnia delle vostre compagne, oltre a essere giustamente ignorati dai vostri figli, che non hanno ben capito chi siate e che cosa ci facciate sotto il loro stesso tetto?

Uno stereotipo vuole che gli uomini sposati non abbiano alcun potere, che siano soverchiati totalmente dalla volontà delle loro donne, ma mi chiedo semplicemente se questo luogo comune non faccia comodo semplicemente agli uomini stessi. Cari padri, presunti o meno, avete mai provato invece a guardarvi dentro e a esprimere con chiarezza quello di cui avete bisogno, a esigere un vostro spazio decisionale nell’ambito familiare? Avete una benché minima idea dei danni che farete ai vostri figli, dei traumi che causerete loro, lasciandoli in un legame simbiotico con la loro madre, anziché prepararli alla vita e allontanarli da un abbraccio che alla lunga potrà essere soffocante e castrante? O siete per caso diventati troppo pigri e preferite delegare tutto alla vostra compagna senza prendervi un minimo di responsabilità?

Sul serio, cari padri, cari uomini, avete lasciato il mondo in preda a un’isteria collettiva. Ce ne fosse uno che imponga una visione lucida, una direzione con delle solide basi etiche, un’idea costruttiva di società. Ci troviamo un vecchio piscialetto eunuco come Biden per presidente degli Stati Uniti, con Kamala Harris che annunciava qualche mese fa “Ce l’abbiamo fatta Joe, sei presidente”, una prima persona plurale che sottende che il povero vegliardo non conta invero assolutamente un cazzo, salvo però farsi bello affermando che Putin è un assassino, un’affermazione tollerata solo perché il suddetto fa parte dei cosiddetti buoni. Se solo Trump si fosse permesso di fare una dichiarazione tale, i media avrebbero sollevato un polverone inaudito contro il solito cattivone fascista. Giustamente, la narrazione progressista ha bisogno di un nemico per mantenere il controllo, “The Donald” si era dimenticato di tutto questo, nel corso del suo mandato, è bene tornare alle sane vecchie abitudini.

Insomma, il nulla assoluto. Tornando ai presunti papà-nullità dell’epoca moderna, questi “maschi di donna” sono in fin dei conti quello che ci meritiamo per un eccesso di benessere, figli di genitori accentratori ed eccessivamente accudenti, che hanno fatto passare il messaggio di una vita facile e in discesa. E qual è il risultato ottenuto dunque, cari padri? Che tutto è purtroppo in balia di un caos incoerente, mentre sprofondate, pigri e depressi, nei vostri divani, con le vostre pance orribili e i piedi che vi puzzano, in giro per casa con quegli orrendi pigiami, per poi lamentarvi del fatto che vostra moglie non vi desidera più, chissà come mai.

Per cui, buona festa del papà del cazzo, le zeppole dovrebbero tirarvele addosso, razza di molluschi che non siete altro.

Un Anno di Pandemia

È passato ormai un anno dall’esplosione della pandemia, da quando il Covid-19 è entrato a far parte delle nostre vite come un inconsueto animale domestico, alla stregua di un micetto occultato dietro la tenda del soggiorno che, d’improvviso, tende un agguato al proprio padrone tirandogli un’allegra zampata con cui ci vuol ricordare la sua dispettosa presenza. Sono state molteplici le conseguenze sulla nostra cultura e sull’informazione: alla già stucchevole retorica basata sul leccare il culo alle cosiddette “minoranze”, perpetuata dai nostri giornalisti “maschi di donna” castrati, si sono aggiunte le videoconferenze di Veltroni, Jovanotti, Recalcati, quest’ultimo psicanalista dal dolcevita nero che pronuncia “Lacan” alla francese, autoproclamandosi esperto del suddetto mentre strizza l’occhietto ai progressisti, tanto che sovente mi chiedo se costui qualche volta sia presente in studio e se abbia davvero dei pazienti. Vogliamo poi aggiungere il narcisismo ridicolo e collettivo di un paese che si sente eroico e grande per essersi serrato in casa in pigiama? Mi sovvengono i nostri nonni, che forse un’autentica sofferenza esistenziale l’hanno conosciuta, avendo molti di loro toccato con mano cosa voglia dire rischiare seriamente la vita, e mi auguro davvero che voi, coglioni patetici menestrelli da balcone del cazzo, improvvisati pasticceri e panificatori da Instagram, finiate prima o poi al fronte: sarà uno spettacolo vedervi cagare addosso terrorizzati, dopo vent’anni passati a farvi le seghe sui social network.

Al solito lo dirò con fare birbantello e provocatorio, rovesciando completamente la narrazione di regime, che ci vuole tutti omologati e accondiscendenti, nel nome di un bene imposto dall’alto: dobbiamo prendere atto che questa situazione ha portato solo ed esclusivamente dei vantaggi. Pensiamo alla possibilità di lavorare comodamente da casa, consentendoci di non condividere l’alitosi e le ascelle terrificanti dei colleghi negli open space, magari partecipando a riunioni di lavoro online ostentando autorevolezza e professionalità seduti sul cesso, sorridendo sornioni all’idea che i colleghi dall’altra parte non sospetteranno mai che siamo in pigiama e stiamo cagando con la porta aperta. Pensiamo al fatto che avremo fatto sì e no due o tre pieni di benzina, all’aver speso molti meno soldi: tutto questo smentisce in maniera lapalissiana quanto i soliti frignoni e gufi sono soliti affermare in merito al fatto che la pandemia ha devastato la nostra economia. È l’esatto contrario: abbiamo risparmiato un sacco di denaro. È dunque cosa buona e giusta che molti esercizi commerciali abbiano chiuso e molte aziende abbiano avviato le procedure di cassa integrazione nei confronti dei loro dipendenti. Come vi permettete di risparmiare? È giusto che a fronte di tali cospicui capitali non spesi le vostre entrate si riducano. Vergonatevi, lazzaroni! Dovete tornare a spendere e a sperperar danaro, soprattutto perché è arrivato il cashback di Stato e la lotteria degli scontrini: al governo servono entrate, al governo serve IVA da incassare. Chissà, magari un giorno, qualcuno di voi potrebbe diventare anche milionario.

Lo so, molti di voi contesteranno il fatto che hanno dovuto sopportare la convivenza forzata con partner e prole, ma per quello basta non sposare qualcuno che non si ama per accontentare mamma e papà e per dar loro dei nipoti. Ciò nonostante, possiamo sicuramente gioire in merito al fatto che abbiamo avuto la possibilità di evitare per lungo tempo i nostri parenti e di saltare innumerevoli pranzi e cene in famiglia, incluse le feste comandate. Dopo un anno, immagino che voi ragazzacci quarantenni ci abbiate fatto l’abitudine a stare lontani dai vostri genitori e suoceri, dunque c’è speranza che questo virus un po’ impertinente sia riuscito a dare un colpetto al becero familismo amorale che perseguita il nostro devastato paese.

Ora perdonatemi, la donna che non amo e che non mi ama mi sta urlando dietro perché a suo avviso passo troppo tempo al computer e poco con dei figli che fondamentalmente detesto.

Buonanotte ❤

Ade

Su una remota collina un castello
s’erge perfetto nel regno natale
ove il vetusto ricordo m’assale
di luce ed ombra di sfida a duello;

congiunge il cielo e la terra, un orpello
ch’è d’otto lati, d’età medievale,
d’un grande eclettico, uomo regale,
triplice vista al villaggio più bello.

Di quel villaggio or emerge il richiamo,
se porrà fine al mio peregrinare,
esploratrice solinga d’abissi.

Ade, ebbi modo che non mi rapissi,
come Persefone fosti a violare,
libro per Eros, non voro il tuo amo.

Depressione Ostentata

Volevo approfittarne per ringraziare un affezionato lettore, il quale mi ha parlato con molta passione degli Alice In Chains e mi ha permesso di conoscere e approfondire questo gruppo. Mi ha colpito in particolare la versione “unplugged” di questo brano, “Down In A Hole”. In questa performance dal vivo, il cantante Layne Staley, fisicamente e psicologicamente logorato, tira davvero fuori tutta la vita che gli era rimasta, nonostante fosse totalmente in balia di una purtroppo irreversibile depressione e di una tossicodipendenza da eroina. Staley è finito “in un buco”, per l’appunto, e non è stato capace di uscirne.

Ecco, prendo spunto da questa autentica opera d’arte che renderà la buonanima di Layne immortale, perché ultimamente mi fa sorridere una certa ostentazione di malessere sui social, tramite la quale si cerca di mercanteggiare la propria dignità personale per elemosinare un briciolo d’affetto. Sembra quasi che essere ansiosi, depressi, “borderline”, sia divenuto un vezzo, una peculiarità di cui andar fieri in modo da sentirsi più affascinanti e più interessanti. Purtroppo, tocca darvi una delusione anche questa volta: siete banali, noiosi, prevedibili e, soprattutto, per nulla interessanti e attraenti. Oltre a ciò, mi sento di aggiungere una postilla: se foste davvero depressi, e, perché no, anche eroinomani, i social network dovrebbero essere un vero e proprio museo online, una sorta di virtuale accademia delle belle arti, con contenuti ricchi di fotografie, pitture, musica e letteratura di altissimo livello. Insomma, da un punto di vista artistico questi anni dovrebbero teoricamente costituire un nuovo Rinascimento, che tra l’altro sarebbe in linea con un papato per certi versi velatamente simile a quello di Alessandro VI, visto che anche a Bergoglio, in fin dei conti, piace la fica, visti gli ultimi apprezzamenti fatti su Instagram a una procace modella brasiliana. Invece, al solito la triste e mesta realtà: siete in grado di produrre solo post scontati, il più delle volte sgrammaticati, a cui si accompagnano fotografie di merda con i vostri patetici primi piani in cui ostentate profondità e nel frattempo vi date all’accattonaggio affettivo, per un presunto amore che mamma e papà non vi hanno dato quando eravate bambini.

Caso mai è il contrario, dal mio punto di vista, i vostri genitori non vi hanno dato sufficienti cinghiate sul culo.

Buon ascolto.

Sabato Sera

Sollievo sopraggiunto, eterna lotta,
d’un orbe soffocato da un padrone,
m’elevo a mani giunte a Te, rimbrotta,
assorbi il me negato e testimone.

Rileva, prendi spunto, esterna flotta;
la serpe ha ormai placato ogni tenzone,
l’alcova è non più unta, sverna rotta,
le turbe hanno assediato altra fazione.

E penso a te, alla virtude mancante,
sommersa da una peste celebrata,
pusilla servitrice assai banale;

l’immenso re ormai ci esclude, distante,
dispersa già ogni festa, disertata.
Sobilla, o meretrice, non fai male!