Dino ebbe un attacco di panico. La sua schiena era imperlata di sudore freddo, il respiro gli si fece affannoso, mentre continuava a girare su se stesso e a tirare calci e pugni sempre più frequenti alle pareti della cabina. Conosceva fin troppo bene quella sensazione. Claustrofobia. La stessa che provava da bambino quando rimaneva bloccato per ore in ascensore, a causa della negligenza di quel terrone dell’amministratore del condominio in cui viveva con i suoi genitori in Puglia.
Di colpo, mentre ruotava su se stesso sempre più vorticosamente, urlante e sudato, un soldo di cacio alto un metro e trenta, coperto da un manto blu che gli arrivava alle caviglie, con il capo coperto da un cappuccio da cui non trapelava alcun volto, ma solo due luci bianche come stelle lontane a funger da occhi, si materializzò improvvisamente nel cubicolo. Dino caddè al suolo, portò alla fronte e al petto i palmi delle mani, strisciò di culo in quei pochi centimetri di suolo disponibili, sgranò gli occhi ed emise un grido di terrore. La sua fronte era ricoperta di goccioline, come rugiada al mattino. Osservò il soldo di cacio per un minuto abbondante, con il labbro inferiore che gli tremava, gli occhi pieni di orrore e il fiatone, finché finalmente, non riuscì a proferire:
– E tu chi cazzo sei?
– Modera il linguaggio, cazzone. – rispose il soldo di cacio. La sua voce era la sovrapposizione di due suoni fanciulleschi, uno maschile e uno femminile. – Vuoi rovinarti la reputazione in questo modo? – Il soldo di cacio faceva riferimento al fatto che Dino Venìti soleva vantarsi, con i suoi amici, parenti, colleghi e con i parrocchiani del quartiere, di non aver mai pronunciato una parolaccia in vita sua. – Hai idea, cazzone, di che cazzo di casino hai appena combinato?
Dino tremava, mentre guardava il soldo di cacio, colmo di terrore: – Ti prego, non farmi del male!
– Non ne ho la minima intenzione, cazzone. Ci hai pensato benissimo da solo a farlo. E adesso ne conoscerai la ragione. – Il soldo di cacio si lanciò in una risata sguaiata da incubo, che risuonò infera all’interno della cabina senza via d’uscita, che costrinse Dino a pigiare con forza le mani su entrambe le orecchie, mentre stringeva gli occhi sperando che quell’incubo svanisse come un’allucinazione. Dino riaprì gli occhi, ma il piccoletto era ancora lì, che lo fissava intensamente nelle iridi con i suoi occhietti lucenti:
– Guardami bene in faccia, stronzetto perbenista, perché ora vedrai con molta chiarezza le conseguenze delle tue azioni. Lo sai chi hai tradito, facendo questo?
La luce dagli occhietti dell’inquietante piccoletto si fece più intensa, finché un candore non accecò completamente Dino, riempiendo il cubicolo. A un tratto, un ricordo vivissimo, tangibile, si riaffacciò alla sua mente. Ora ricordava. Sì che ricordava.
E rivide. Rivide se stesso, in quinta ginnasio. Aveva sedici anni. Capelli nero corvino, pettinati, puliti. Camicia bianca, pantaloni eleganti grigi e scarpe nere, abbinate alla capigliatura. Suo padre, l’architetto Dino Veniti Senior, era passato a prenderlo con la sua BMW 320d all’uscita da scuola. Il giovane Dino salì in auto, zaino in spalla e cominciò a raccontargli la giornata:
– Ciao Papà – lo baciò due volte sulle guancie – abbiamo avuto una discussione di politica tra compagni di classe, ma sai, io non ne capisco molto e non sono riuscito a controbattere.
Suo padre, uomo costantemente pieno di rabbia, digrignò i denti, con le labbra serrate, mentre il suo volto si faceva cremisi e cominciò a soffiare dal naso, a guisa d’un toro. Era solito sfogare sul figlio le sue frustrazioni lavorative, trattandolo con ingenerosa severità. Non era mai stato fiero di lui. Gli disse con durezza:
– Tu di politica non capisci un cazzo!
Dino, ragazzo fragile come un cristallo, si sentì profondamente mortificato da quell’affermazione. Faceva il possibile per compiacere quell’uomo rigido e severo, vecchio comunista in carriera arricchito, che non lo riteneva all’altezza della vita. Riteneva la sua eccessiva sensibilità poco consona a un uomo, poco virile, poco maschia.
– Se vuoi saperne di più, devi leggere i giornali. Non vedi me? Tutti i giorni compro La Repubblica. Leggiti le notizie di politica e di cronaca. Se poi vuoi farti un’idea chiara di come vanno le cose in Italia, devi leggere gli articoli di opinione. Chiaro? In particolare, la domenica, leggiti l’editoriale di Eugenio Scalfari. Ti aiuterà a formarti un’opinione chiara e precisa su come funziona il nostro paese.
Dino prese alla lettera l’ammonimento e la lezione del padre. Da quel giorno, cominciò a divorare notizie di politica, informandosi solo ed esclusivamente su La Repubblica, ritenuto, dal suo punto di vista, l’unico giornale in grado di avere in mano la verità dei fatti, una sorta di Vangelo della sinistra moderata. In breve, Dino si trasformò in un vero paladino dei progressisti e fece dell’antiberlusconismo la sua nuova religione, ritenendo chiunque votasse per il centro-destra malvagio e corrotto. Sentiva finalmente di essere dalla parte del giusto, dei buoni, parte di qualcosa, come suo padre, al contempo detestato e idealizzato. Finalmente aveva sufficienti argomentazioni per tenere testa ai suoi compagni di classe di orientamento politico opposto.
Il ricordo cominciò a dissolversi, in sinergia con l’intensità della luce emessa dagli occhietti del soldo di cacio.
– Papà… – sussurrò Dino, con le lacrime salate che cominciavano a sgorgare dai suoi occhi. – Che cosa ti ho fatto! Perdonami! -. Emise un rumoroso e doloroso singhiozzo, mentre un nodo lo strozzava in gola.
– E questo è solo l’inizio, cazzone piccolo-borghese – gli rispose l’ometto inquietante. – Quello che hai fatto avrà delle profonde conseguenze anche sul futuro, non solo del paese, ma anche sul tuo. Guarda un po’.
La cabina si fece di nuovo completamente bianca.
Dino vide ancora. Vide il futuro che si srotolava placidamente dinanzi ai suoi occhi neri, come un tappeto in discesa lungo un’alta scalinata.
Eccome se vide. Quante cose vide. Vide i risultati di quelle elezioni, con Mentana che annunciava la vittoria della coalizione di destra, guidata dalla Lega di Matteo Salvini e da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, per un solo voto. Un unico voto secco. Un solo, determinante, maledettissimo voto, cazzo.
Evento praticamente impossibile, mai accaduto nella storia elettorale di qualsiasi paese democratico.
– Indovina a chi appartiene, quell’unico, minuscolo voto, insignificante testa di cazzo benpensante? – fece il nanerottolo.
– Ma era esattamente quello che volevo questa volta! Dove sarebbe il problema? – piagnucolò Dino.
– Guarda, cazzone ipocrita. Guarda bene cosa succede tra poco. – disse il mostriciattolo dalla voce doppia, ridendo orribilmente.
E Dino vide ancora. Vide Matteo Salvini giurare fedeltà alla Repubblica Italiana nelle mani del Presidente. Vide il voto di fiducia al governo Salvini I passare al Senato e alla Camera per appena due voti di scarto. Vide deputati e senatori del PD e del Movimento Cinque Stelle passare dalla parte della maggioranza, per pura soggezione, timore riverenziale e totale soggezione alla sua figura carismatica e mediatica del nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri. Vide la prima grande Riforma della Costituzione, che trasformò l’Italia in una Repubblica Presidenziale, votata quasi all’unanimità dal Parlamento. Vide Matteo Salvini togliere la fiducia al suo stesso governo per tornare alle urne. Vide Salvini vincere le elezioni e diventare il primo Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale dai cittadini italiani. Vide Salvini promuovere nuove riforme della Costituzione, sfruttando bachi ed errori nella prima riforma, che l’avevano già di per sé indebolita, che aboliva pesi e contrappesi e concentrava il potere interamente nelle sue mani, i pieni poteri che da tempo bramava con ardente desiderio. Vide il parlamento Italiano procedere spedito con ulteriori modifiche alla ormai irriconoscibile carta del 1947, istituendo il ruolo di Capitano della Nazione, che fondeva i ruoli del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Repubblica in un’unica carica. Vide il nuovo regime abolire qualsiasi forma di opposizione, sindacale e partitica, prendere il controllo della stampa, delle televisioni, di internet, chiudendo giornali, programmi televisivi, siti e blog. Vide sfilate dell’Esercito Italiano in onore del Capitano. Vide quadri e fotografie di Matteo Salvini ovunque, nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi di lavoro pubblici e privati. Vide titolare le maggiori piazze italiane al leader della Lega, dove al contempo venivano erette statue in sua memoria.
– Ma questo è quello che inconsciamente ho sempre sognato! – fece Dino, implorante e disperato.
– Aspetta, cazzone, aspetta – replicò il piccolo omuncolo – Non è ancora arrivata la parte migliore di questa storia. Mettiti bello comodo. – E rise ancora, quel piccolo mostro, di gusto.
E Dino, per l’ennesima volta, vide. Un nuovo tuffo nel passato, qualche mese prima. Rivide quell’ultimo pranzo di Natale, assieme ai suoi genitori, ai quali aveva annunciato che era ormai stufo dell’inconcludenza e dell’autoreferenzialità dei personaggi orbitanti nell’area del centro-sinistra e che quella volta avrebbe dato il suo voto alla coalizione di centro-destra. Rivide la rabbia addolorata di suo padre, farsi rosso in volto e cominciare a sbuffare dal naso, per la delusione e per il dolore nel vedere quell’ingrato del sangue del suo sangue ribellarsi al suo volere, prendere i suoi insegnamenti, accartocciarli e gettarli via in un cestino.
E rivide ancora suo padre. Lo vide, seduto in poltrona, il giorno in cui Salvini divenne Presidente della Repubblica Italiana. Vide suo padre addormentarsi, con la televisione accesa, mentre trasmetteva il telegiornale. Vide sua madre avvicinarsi alla poltrona per svegliarlo e andare a letto insieme. Vide sua madre rendersi conto all’improvviso che suo marito non si sarebbe più svegliato. E Dino provò una colpa improvvisa, un pugno nello stomaco, uno strappo che lacerava le sue carni. Con il suo voto, esattamente il suo di voto, aveva ucciso suo padre. Quella sarebbe stata la sua croce, la sua condanna. Per il resto della sua vita.
– Papà, no! No! No! – urlò Dino. Ormai piangeva e urlava come un disperato, profondamente pentito.
L’ometto inquietante lo osservava silenzioso, un silenzio dal sapore d’un muto giudizio. Ma il tormento non era ancora terminato. Questi pronunciò, distogliendo Dino dalle sue lacrime amare:
– Sei pronto per il gran finale?
– Che altro c’è ancora? Basta, ti scongiuro! – supplicò Dino.
(Continua…)