Il richeo, in svariate occasioni, si rende conto della sua condizione di sfigo studente universitario e della sua dignità ormai travolta e tenta, in talune circostanze, di porre rimedio all’agghiacciante posizione da egli stesso creata. In qualche occasione, cerca di recuperare la sua scalfita immagine, cimentandosi in patetiche esibizioni comiche, allo scopo di compiacere invano e di mutare l’altrui opinione, oramai consolidata tenacemente, a cause delle innumerevoli sfighità contraddistinguenti il nostro.
Svariati e innumerevoli sono i tentativi principali che spingono il richeo alla disperata ricerca di un onore ormai irrecuperabile. In talune circostanze, il soggetto si cimenta in battute che solitamente rimandano all’ultima lezione universitaria affrontata, rasentando il ridicolo e ottenendo come unico risultato l’autodevastazione della sua reputazione. Talvolta, anche per accentuare di proposito un ruolo che ormai considera tutto sommato consolidato, dimostra titubanza quando gli si pone dinanzi il problema di affrontare la per lui annosa scelta di farsi una generosa scopata o di risolvere un’equazione differenziale.
Il fiore all’occhiello del richeo umorismo sono sicuramente le sue imitazioni, o presunte tali. Il nostro, in più di una circostanza, usa cimentarsi nel riprodurre vocalmente personaggi buffi del mondo dello spettacolo, ad esempio Maurizio Costanzo o Luca Giurato, con scarsissimi risultati qualitativi, esibendosi generalmente dinanzi ad una folla attonita, che è solita guardarsi negli occhi, mentre in ognuno corre il medesimo pensiero in testa: – Ma che cazzo vuole questo qui? –
In linea di massima, il richeo umorismo è estremamente pesante, con una spiccata tendenza alla lamentela e al vittimismo, e generalmente suscita risa, ma isteriche, o nella gran parte dei casi, costringe chi lo ascolta ad alzare gli occhi al cielo pregando un dio qualsiasi che lo fulmini all’istante.
A questo proposito, si vuole rimandare alla memoria uno dei casi più eclatanti. Si era in gruppo, studiando alcuni temi aberranti relativi ai sistemi hamiltoniani, corso tenuto da un docente fortemente effeminato e con un fastidiosissimo difetto di pronuncia concernente la consonante esse. Anch’egli, come il nostro richeo, era contraddistinto da un pessimo gusto nel vestire. La sua immagine rimandava difatti a quella di un becero cameriere da bar, a seguito della sua abitudine di indossare un panciotto nero sulla sua camicia bianca. Eclatante fu, a tal proposito, l’episodio che lo etichettò per sempre in tal guisa. Avvenne infatti che, nel corso di una sua soporifera lezione, egli redarguì due studenti in quel mentre distratti e sorpresi a chiacchierare e ridere tra loro, con la seguente frase : – Volete che vi porti un caffè? -, dandosi definitivamente la zappa sui piedi e scatenando le risa sommesse dell’autore e dei suoi compagni. In un’altra circostanza, nel corso della correzione di una delle due prove scritte del suo esame, lo stesso docente, riferendosi al compito svolto dall’autore, gli si rivolse con la seguente frase, a rimarcare per l’ennesima volta più di un dubbio sui suoi gusti sessuali:
– Faccia bene la seconda prova, così glielo tiro un po’ più su.
Tale frase provoca tuttora angosce e turbamenti all’autore di quest’opera.
Ma non divaghiamo. A un certo punto, il richeo amico, leggendo parte di un paragrafo del libro, scritto dal docente di cui sopra, saltò fuori dicendo:
– Ragazzi, scusate se vi interrompo, che cos’è l’ampliezza?
– Eh?
E il richeo, imponendo ancor più vigore al sarcasmo del suo tono di voce:
– Sul serio ragazzi, che cos’è un’ampliezza? E’ scritto qui. E’ un concetto del quale non ho mai sentito parlare, sapreste illuminarmi?
Il nostro si riferiva ad un semplice errore di battitura relativo al lemma ampiezza. Il docente aveva di fatto commesso il grave errore di aver aggiunto una elle di troppo. Fatta notare la cosa con questo tocco di ironia, vagamente piena di livore, il richeo si lanciò in un’invettiva contro la mancanza di serietà e rigore del personale docente dell’Università degli Studi di Milano, suscitando le risa nervose dei suoi compagni di studio, concludendo la sua arringa con uno dei suoi tormentoni più noti:
– Vabbè, si sa che siamo in Italia!