A chi resta

Seggo in un pub sorseggiando della tiepida birra, mentre in sottofondo ascolto “The power of love” dei miei amici Huey Lewis and The News, con i quali negli anni ottanta abbiamo stretto un sodalizio artistico del quale sono l’unica ad averne rimembranza. Mi piace ostentare, fingere di avere amicizie importanti nel mondo della politica e dello spettacolo, soprattutto perché nessuna di voi si accorgerebbe di nulla. Non vi è più alcuna differenza tra verità e menzogna, tra passato e futuro, tra destra e sinistra, tra uomini e donne, io stessa vivo unicamente nel presente, dimenticando da dove vengo, incurante di chi sarò, di cosa mi aspetta, avendo rinunciato a qualsivoglia progettualità, avendo gettato la spugna, rifugiandomi unicamente nel mio mondo fantasmatico, galleggiando tra simboli e archetipi, lasciando tutto alle spalle, compreso il mio antico titanismo romantico, che ha fatto posto a una placida serenità, nella quale ondeggia un segnale sinusoidale d’ampiezza sempre più ridotta, tra picchi di gioia e dolore sempre meno intensi.

Un tempo ero giovane e forte, sculettavo baldanzosa e strepitavo per cambiare le cose, ero esattamente come voi, giovani sognatori e idealisti con la voglia di conquistare il mondo, ma con il tempo mi sono resa conto che fondamentalmente riuscire a realizzarsi equivale a farsi potere, imporre un nuovo status quo e invecchiare di colpo, divenire politicanti da quattro soldi e manovrare la gente sottilmente, alternando bastone e carota, vivendo in uno stato di noia perenne. Si raggiunge la vetta e vi è solo il vuoto cosmico, si sgomita, si combatte finché malauguratamente i propri desideri si realizzano e ci si domanda:”Tutto qui?”

Cari utenti e care utentesse, lasciate perdere il potere, Hegel lo aveva capito benissimo: è lo schiavo ad avere il vero potere. Quando ho lasciato l’Italia ho dato il benservito a un superiore idiota e dispotico che ha continuato a scrivermi per chiedermi ancora supporto su alcuni miei vecchi lavori. Quando ho visualizzato la sua missiva, ero indecisa se rispondergli inviandogli la foto di un uccellone, di un cesso o semplicemente ignorarlo.

Ho optato per la terza opzione, mi ha scritto ancora e l’ho ignorato ancora, e ho potuto percepire, toccare con mano la sua disperazione e impotenza, il sentirsi perduto, ho potuto assaggiare con soddisfazione il dolore del suo sentirsi abbandonato, vederlo in ginocchio, monarca di un regno decadente al quale hanno tolto improvvisamente il trono da sotto il culo.

Insomma, non invidiate i vostri superiori, amici e amichesse, siete voi ad avere il vero potere. E a chi resta comunque, tutta la mia amicizia e la mia stima. Siete voi i veri eroi, io sono fuggita come una vigliacca.

Viva il proletariato, viva Stalin!

Genitorialità Sana

Nel mio navigare tra altri “blogs” e pagine più o meno blasonate nell’ambito delle reti sociali più note, mi capita talvolta d’incappare in autori e autoresse che raccontano della propria esperienza di genitori, delle ansie e delle preoccupazioni tipiche di chi si ritrova quotidianamente, o si ritroverà a breve, a dover intraprendere il mestiere più difficile del mondo. Posso ben capire lo stato d’animo di costoro: come ben sapete, sono madre e padre di due bellissimi bambini, e vi posso assicurare che anche alla sottoscritta tocca convivere con un carico emotivo che ai tempi delle superiori, i tempi in cui ero l’ape regina del Liceo, gli anni in cui mi circondavo del mio harem di mezzi uomini con al fianco la fedelissima e scodinzolante Mariarita, non avrei mai sospettato di dover affrontare.

Credetemi, tra le varie ansie che noi madri ed eroine multitasking del terzo millennio ci troviamo ad affrontare vi è quel costante senso di inadeguatezza, quel timore di non essere perfette agli occhi dei nostri figli, quella paura di non farcela, quei momenti in cui l’anima si fa cupa e le nostre fragilità e i nostri conflitti irrisolti riemergono con prepotenza, quegli attimi in cui non vogliamo che i nostri figli percepiscano tutto questo, quei momenti in cui facciamo di tutto per non scaricare addosso alle nostre creature il male di vivere e il dolore che ci portiamo dentro, noi donne trascurate da padri assenti e da madri narcisiste e invidiose, legate a uomini ignavi e privi di cuore e spina dorsale che abbiamo sposato accecate da chissà quale abbaglio, ma la loro stupidità ci torna utile per sentirci migliori di loro, ben sapendo che il loro ruolo all’interno della famiglia è ormai totalmente marginale, ma per fortuna la società ha finalmente capito la nostra reale superiorità e non c’è cosa più grande dell’amore e della riconoscenza che un figlio può provare nei nostri confronti, l’amore più grande che esista, un amore totalizzante che nessun elemento di disturbo esterno dovrà osare turbare, affinchè questo legame duri in eterno rendendo la famiglia nucleare un blocco monolitico inscalfibile che non consenta più alcun progresso, alcun passo in avanti, nessuna ulteriore evoluzione dell’umanità.

Fatta questa premessa, cari utenti e care utentesse, con il mio solito fare sculettante e malizioso, ci tengo a chiarire una volta per tutte quello che penso in merito a tutte queste psicociancie che si trovano in rete, in merito a come essere dei bravi genitori e come costruire dei rapporti solidi con i propri figli. Ci terrei, nello specifico a fornire un punto di vista alternativo, che forse si discosterà leggermente da quanto affermato dal cosiddetto “mainstream”, ma naturalmente cercherò di esprimere la mia opinione in maniera delicata e attenta a non ferire l’altrui sensibilità.

Cari genitori e care genitoresse, se i vostri figli vi amano, vi adorano, vi considerano i vostri migliori amici, tutto questo è degno certificato di garanzia del vostro totale fallimento. Avete incatenato i vostri figli per sempre al vostro fianco con l’arma del compiacimento e della seduzione, non consentendo loro di fare esperienza, di attraversare il dolore, di capire quanto voi facciate realmente schifo affinchè acquisiscano quella puntina di disincanto che serve ad affrontare il mondo con un sano realismo per entrare finalmente nel mondo degli adulti. Siete responsabili per aver messo al mondo dei mediocri che saranno perennemente terrorizzati dal mondo esterno, schiavi del vostro compiacimento e del compiacimento altrui.

Ecco perché questa mia missiva vuol essere un elogio ai genitori di merda. Mi riferisco ai padri assenti e scorbutici che umiliano i figli maschi, alle casalinghe sessualmente frustrate e ciccione che si alleano con i figli contro i mariti gettando tonnellate di merda su quest’ultimo, alle insegnanti isteriche che tirano ciabatte contro la loro prole, a quei papà distratti e pelandroni che passano il tempo sul divano, ma i migliori sono senza dubbio i genitori depressi e alcolizzati che costringono i figli a prendersi cura di loro. Loro sì che sono i migliori di tutti, grandissimi, porca troia!

Sapete perché vi dico questo? Le persone più interessanti che ho conosciuto, più realizzate, più sincere, più autentiche, più “individuate”, per non parlare dei grandi artisti, vengono tutti da famiglie problematiche, da genitori terribili che sono stati capaci di farsi detestare dalla loro prole che se l’è data a gambe da quei pazzoidi frustrati figli di buona donna, andando a conoscere il mondo, ricevendo stimoli nuovi e utilizzando quella rabbia come motore per lasciarsi alle spalle il passato e costruire qualcosa di proprio.

Per cui, cari utenti e care utentesse, se avete prole, il mio consiglio non richiesto per fare il loro bene è il seguente: trattateli male, quei piccoli rompipalle dei vostri pargoli, rompetegli i coglioni ed esasperateli con le vostre nevrosi fino a quando non vi urleranno addosso il loro schifo nei vostri confronti e vi daranno il ben servito. Fuggiranno da quella galera della vostra casa e troveranno il loro posto nel mondo, felici e realizzati.

A quel punto, ormai colmi di esperienza, saggi e maturi, vi perdoneranno e voi non potrete che essere fieri di quanto avete fatto, con i vostri limiti e la vostra pochezza, che in fin dei conti appartiene a noi tutti.

O no?

Viva l’ignoranza

Quanto ridere, cari utenti e care utentesse, quanto ridere. Ho appena finito di visionare la versione britannica di “Sister Act – Una svitata in abito da suora”. Non so per quale motivo il regista di questo rifacimento del 2002, Peter Mullan, abbia deciso di cambiare il titolo in “Magdalene”, ma vi posso assicurare che anche questo cosiddetto “remake” sa il fatto suo e con la sua visione passerete un paio d’ore in compagnia di musica e frizzanti “gags” che vi faranno sbudellare dalle risa.

Conclusa la visione di questa brillante e spensierata pellicola, che consiglio soprattutto ai più piccini, ho iniziato una delle mie introspezioni da fichetta, quelle riflessioni profonde nel corso delle quali passo la giornata intiera a fissarmi l’ombelico e a nuotare nel mare magnum delle mie seghe mentali, senza concludere nulla, senza ottenere alcuna risposta, creando al contempo ulteriori domande, ulteriori dubbi che contribuiscono a rendere la mia esistenza sempre più inafferrabile e ambigua, financo a me stessa. Durante questo mio ennesimo viaggio introspettivo, riflettevo nello specifico sulla cultura e sull’intelligenza, che vengono generalmente osannate come strumento di emancipazione e di elevazione. Tutto giusto e sacrosanto, per carità, ma è da un po’ di tempo che mi interrogo sui lati oscuri dell’essere troppo svegli, che porta inevitabilmente a un elevato livello di solitudine esistenziale, ma anche di pessimismo, di sospetto, di sfiducia nei confronti del prossimo, come se questo eccesso di consapevolezza porti ad arroccarsi sulle proprie posizioni, a disprezzare spesso il resto del mondo, a diventare severi e rigidi nei confronti della mediocrità, rendendoci aridi, eccessivamente selettivi e, in certi casi, anche spietati, senza cuore. Il tutto degenera poi nel momento in cui gli intelligentoni di cui sopra decidono di frequentare solo gente del loro livello, divenendo tutti soci del grande club dei bocchini vicendevoli, un posto in cui tutti si danno ragione e nessuno osa contraddire l’altro, finché non nasceranno dissapori su dettagli, piccolezze sul modo di concepire la vita, divergenze di opinioni che si faranno sempre più insanabili e porteranno gli intelligentoni di cui sopra a ritenersi vicendevolmente stupidi e a provare rabbia reciproca, incapaci di ammettere a loro stessi che si sentono traditi e comunque soffrono per aver perso delle amicizie importanti, ma l’eccesso di intelligenza non consentirà loro di esprimere alcun tipo di sentimento a causa dell’orgoglio. 

Insomma, cari utenti e care utentesse, tutto questo per invitarvi caldamente a non mandare i vostri figli a scuola. Fateli fermare alle elementari, al massimo alle medie e mandateli subito a lavorare, fate in modo che non si interessino minimamente di politica, non leggano giornali, non leggano libri, non si facciano un’opinione personale sui fatti del mondo. Creerete solo dei mostri crudeli che si sentiranno onnipotenti e che si sopravvaluteranno, a caccia unicamente di ammirazione, ma incapaci di provare alcun tipo di tenerezza, pur facendo in svariate circostanze le vittime, alla ricerca disperata di un amore presuntamente non ricevuto, con il serio rischio che possano aprire una pagina Facebook o un blog di merda come questo in cui riversare la propria miseria intossicando la rete di livore, forti del sostegno di altri livorosi, con l’ingenua convinzione di poter cambiare il mondo e, guarda caso, a volte ho la sensazione che sia proprio così che nascono le dittature.

L’invito è dunque il seguente: siate ignoranti, ma abbiate almeno un cuore.

E soprattutto: togliete il like a questa pagina e segnalatela.

All’amico Berto

Saltuariamente ripenso agli anni delle superiori e mi torna in mente il mio vecchio amico Berto, il quale è un gran bravo ragazzo, per carità, ma ogni volta che ho l’occasione di vederlo, a distanza spesso di mesi, se non anni, tenta in tutti i modi di riportare il discorso su antichi tormentoni, battute e situazioni avvenute oltre vent’anni fa. A volte ci penso a Berto, sposato e con prole, ma ho come la sensazione che per lui, come per molti altri, il tempo non sia mai passato. Vedo sempre nei suoi occhietti il rimpianto del tempo che fu, le scuole superiori considerate come una sorta di età dell’oro, un mondo ideale, un paese dei balocchi in cui il dolore sembra non esistere, in cui ci si accompagna, secondo Berto come per taluni altri, dei migliori amici che possano essere mai capitati in tutta la nostra squallida vita. Davvero, cari utenti e care utentesse, la vita per taluni di noi sembra essersi fermata ai diciotto anni, divenuta ormai un’orrenda minestra riscaldata, ma mai sia far saltare il tavolo e mandare a fare in brodo delle persone con cui forse non si ha più nulla da raccontarsi, che passano il tempo a punzecchiarsi sul passato per non pensare a un presente tutto sommato grigio e squallido e a un futuro che ci terrorizza, verso il quale ci avviamo sempre più ingrigiti, irrigiditi, ingobbiti, tristi e pieni di rimpianti.

Insomma, il povero Berto spera sempre di passare nuovamente una serata tutti quanti insieme, per invitarmi a prendere per il culo nuovamente il grasso e sudaticcio Clemente, oggetto del nostro bullismo, adoperato come capro espiatorio per non pensare a quanto noi facessimo schifo, a quanto tutt’ora facciamo schifo, nel patetico tentativo di rimettere su “il gruppo” ancora una volta, in una sorta di trapianto forzato di organi totalmente incompatibili in un corpo che, giustamente, si ribellerà e non potrà che causare reazioni di rigetto.

Insomma, cari utenti e care utentesse, liberatevi di quelle palle al piede dei compagni delle superiori, di quel nostalgico sentimentale e rompipalle di Berto, come della vostra migliore amica che però controllate sulle reti sociali, terrorizzate dall’idea che ci stia provando con il vostro ex.

Insomma, questa la dice molto lunga sulla qualità di queste amicizie, ma la cosa che mi stupisce di più è che il tono dei miei post si fa meno livoroso da un po’ di tempo a questa parte.

È proprio vero che la Germania mi sta trasformando definitivamente in una fica.

Ciao Milano

Non sono molto ispirata negli ultimi tempi, sarà che aver lasciato la nostra vecchia Italia mi ha concesso di staccarmi dai quotidiani online. Sul serio, cari utenti e care utentesse, non ho la più pallida idea di cosa stia accadendo nel nostro Belpaese, sono venuta indirettamente a conoscenza di un referendum sulla giustizia, sul quale vi è stata una massiccia astensione, ma questo distacco dalla politica nazionale mi consente in generale di ritrovare una certa pace dei sensi, che mi permette nuovamente di fichettare come se non ci fosse un domani, sculettando in questa gloriosa Repubblica Federale parlando un buffo tedesco maccheronico che suscita l’ilarità delle mie nuove amiche bavaresi, che ho già conquistato con i miei capezzoli puntuti e il mio italico brio. Sono nuovamente eccitata come una scolaretta alla vista di Hans-Dieter, con quel suo capello biondo e quel suo occhio azzurro teutonico, che faceva bagnare le passerine di noi tutte ai tempi del Gymnasium.

In verità, sovente provo nostalgia, in particolare mi manca Milano, che ho lasciato come si lascia una relazione che ormai ha esaurito il suo scopo, una città che ho molto amato, nonostante le torride estati, la puzza del Parco Lambro e le fottute zanzare, le zanzare più ingorde e ciccione mai comparse su tutto il territorio nazionale. L’ho voluta salutare degnamente lo scorso anno, ripercorrendola da cima a fondo, in auto di sera in Tangenziale Est con Radio Millenium in sottofondo, entrando poi in città da Rubattino, attraversando Lambrate, Piola, Loreto, Corso Buenos Aires, Corso Venezia, per poi svoltare a destra in Via Senato verso Brera, per perdersi sulla circonvalla, figa, in quella città deserta in una sera d’estate che da ragazzina mi sembrava una metropoli, una città che ho letteralmente divorato in compagnia delle mie amiche, a caccia di piselloni neri tra l’Alcatraz, il Bobino, quel buco di culo del Birrificio di Lambrate e ritrovarla così piccola, così svuotata del suo scopo, con i locali chiusi a causa del covid, io sempre più vecchia e sola, lasciata in balia dei miei fantasmi anche dalla fedele Mariarita, convolata a nozze con Maicol pisellone, in una città divenuta sempre più invivibile per via di un costo della vita sempre più elevato e dei salari che continuano a comprimersi, una città che ho divorato per quasi vent’anni, ma dove lentamente ho perso pezzi importanti della mia vita, amici che prendono strade diverse, promesse non mantenute sul posto di lavoro, aspettative deluse, situazioni idilliache che diventano sempre più soffocanti e ingabbianti, amori profondi, scappatelle, temporanei ritorni di fiamma e amori di passaggio.

Insomma, cari utenti e care utentesse, non esiste un’unica ragione per cui si decide di cambiare vita, a volte va fatto e basta, per andare altrove e guardare con maggiore distacco alle cazzate che si fanno nella vita, per farsi sempre un po’ più schifo e rendersi conto, solo dopo, di essere stati patetici ed esagerati in certe circostanze, di aver commesso una valanga di errori, che, a Dio piacendo, non commetteremo più in futuro, ma ne commetteremo senz’altro di nuovi, forse addirittura peggiori dei precedenti, ma sempre sculettando e fichettando a destra e a manca, non conoscendo vergogna e perdendo rigorosamente e inconsapevolmente la nostra dignità.

Cambiare è difficile e c’è davvero da cagarsi nei pantaloni quando si decide di mollare tutto. I giorni prima della partenza ho provato momenti di acutissimo terrore, mi sono fatta più volte la cacca addosso, sovente piango ancora come una puttanella per la nostalgia e mi rendo conto che bisogna guardare con comprensione a chi decide di restare quarantadue anni nello stesso posto di lavoro del cazzo, tutta una vita in un matrimonio fallimentare dove le scappatelle sono l’unico momento di evasione, perché le nostre potranno essere anche delle prigioni, ma il problema è che sono comode.

Non so che altro dire, potrei minacciare per la terza o quarta volta di chiudere il blog, solo per il gusto di sentirmi dire che qualcuno di voi potrebbe sentire la mia mancanza.