Colpi di coda

L’adolescenza dà i suoi ultimi colpi di coda.

Un campanello interno suona ormai, quando ci comportiamo da adolescenti, sempre più severo, pronto a redarguirci, a ricordarci che non è più tempo, per certe cose.

La vita è severa, crudele e ci prende a sberle, anche.

Perché la vita è bellissima, quando è una vita completa, una vita di gioia e dolore, che si compenetrano poeticamente.

E a quel punto, si osservano le acque scure, in piedi sulla piattaforma, completamente nudi e ci si tuffa dentro, in quel bagno doloroso e angosciante, freddo, ci si lascia travolgere dalle onde oscure, smettendo di far girare gli ingranaggi del cervello alla ricerca di una soluzione che dia sollievo. Basta aspettare.

Sì, è sufficiente mettersi in attesa, mentre le acque agitate ci portano a fondo.

D’un tratto, il miracolo: si riemerge. E il dolore si trasforma, in gioia, in pace. Ciò che sembrava irreversibile, irrimediabile, buio, si illumina.

Il tempo si dilata, gli istanti diventano eterni.

Anche se abbiamo i giorni contati.

Il giro di boa verso l’età adulta procede, non è indolore, è una rinascita, che ovviamente porta le doglie di un parto difficile. Non è ammessa anestesia epidurale, né cesareo. Si esce dalla strettoia, si passa evangelicamente dalla porta stretta, sporchi di placenta, ancora, e ancora, e ancora.

La pelle si spacca, urliamo il dolore della muta, per poi, passato il pericolo, guardarci allo specchio, sempre più belli, sempre più veri, sempre più luminosi, sempre più in pace, sempre più centrati.

Sempre più noi.

Sempre più , sempre meno io.

Sempre meno.

Sempre.

Come se avessimo ancora cent’anni da vivere.

Come se fossimo immortali.

Anche se il tempo stringe.

Anche se abbiamo i giorni contati.

Dino Veniti alle Urne – Parte 3

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(…Continua da qui – Parte 2)

– Tu credi di esserti salvato il culo, cambiando parrocchietta, razza di fariseo voltagabbana? Hai un’idea vaga del secolo in cui ci troviamo? Te lo dico io, nel caso te ne fossi dimenticato: nel ventunesimo! Siamo abbondantemente nel terzo millennio, cazzone! E tu credi davvero che il partito unico non verrà a conoscenza del tuo passato da progressista, da sinistro, da radical chic con questa bella spolverata di cristianesimo ostentato, tanto per avere la botte piena e la moglie ubriaca? Credi che il partito non avrà a disposizione un corposo archivio su cui, a caratteri cubitali, fa bella mostra il tuo nome e il tuo faccione rassicurante? Pensi che al suo interno non ci siano tutte le tue telefonate, le tue lettere cartacee di quando eri ragazzino, le tue conversazioni sui vecchi e nuovi sistemi di messaggistica istantanea, i tuoi post sulle reti sociali, le tue foto alle manifestazioni per la libertà di stampa e per la pace, ai concerti del primo maggio, quando da adolescente ci andavi solo per ubriacarti e fumarti quale spinello? E, dulcis in fundo, sei davvero così convinto che il partito non abbia archiviato tutte le domande che hai posto ai motori di ricerca? Sapranno tutto, persino i tuoi pensieri più reconditi, le tue paure più inconfessabili, le tue depravazioni e perversioni. Il tuo passato è incancellabile. E il nuovo governo non si fiderà mai, ti dico mai e poi mai, di una banderuola al vento come te.

Dino era paralizzato dal terrore e dal dolore. Osservò a lungo l’ometto, che aveva parlato con così tanta chiarezza e sicumera, colpendo nel segno e disarmandolo. Si sentiva nudo come un verme. A un tratto, recuperando il respiro e un pizzico di lucidità, si mise in ginocchio ed ebbe la forza di pronunciare, in maniera piagnucolosa:

– Dimmi cosa posso fare. Voglio tornare indietro. Dammi quelle schede, le annullerò, non posso permettere tutto questo. Ti scongiuro, ridammele, lascia che le strappi!

Il piccino fece un sospirone. Fissò intensamente Dino con i suoi lucenti occhietti stellati. Fu una pausa interminabile, un’eternità di sguardi reciproci e intensi. Dino aveva ancora un’espressione di speranza negli occhi. Sperava che l’omuncolo inquietante, in un modo o nell’altro, gli permettesse di cambiare le sorti del paese e della sua vita, di riavvolgere il nastro della storia e di riportarlo al punto di partenza. A quel punto, l’orrido soldo di cacio, dopo aver lungamente atteso, proferì crudamente:

– Goditi il nuovo regime, pezzo di coglione!

L’ometto scomparve nel nulla. Il pavimento ai piedi di Dino, all’interno di quel cubicolo claustrofobico, cominciò a riempirsi di crepe finché non collassò facendo precipitare il malcapitato elettore nel nulla. Venìti emise un urlo che, a mano a mano, si faceva sempre più flebile, lontano, grave.

Finalmente, Dino si sfracellò al suolo, risvegliandosi di colpo: era stato uno spasmo ipnico. D’un tratto, si trovava nella sua Volkswagen T-Cross, parcheggiata dinanzi a casa sua, con entrambe le mani sudate e tremule sul volante. Attorno a lui, era un completo deserto. Il cielo era grigio. Lungo il viale alberato, non vedeva anima viva, né un auto parcheggiata. Gli alberi erano spogli e foglie secche sui marciapiedi e in strada strisciavano in crepitii accompagnando il fischio acuto del vento invernale. A parte questo, un silenzio tombale. Le villette accanto alla sua avevano le tapparelle completamente abbassate e dalle fessure di queste non trapelava luce alcuna. Dino si accorse ben presto che qualcosa non quadrava. Mani al volante, si voltò verso il marciapiede opposto alla sua villetta, presso cui erano installati gli stendardi urbani su cui il comune era solito apporre gli avvisi, le delibere del consiglio e i necrologi. Adesso questi erano tappezzati unicamente di manifesti su cui campeggiavano slogan di questo tipo:

Prima gli Italiani
Sovranismo e Autarchia contro gli Eurocrati
Confini chiusi
Famiglia e Tradizione
La Lira Libera

In basso a destra, i manifesti erano marchiati a fuoco con l’inevitabile, ormai inamovibile, simbolo della Lega.

Fece caso a un ultimo inquietante manifesto, che svettava tra tutti. Vide il faccione rassicurante e sorridente di Matteo Salvini, alla stregua di un padre buono e protettivo. Sotto il suo volto, vi era la scritta:

Il Capitano ti Osserva, ti Ascolta e ti Pensa

Dino aprì prudentemente lo sportello dell’auto, da cui scese per immergersi nella bruma del primo pomeriggio, e lo richiuse delicatamente. Si avviò di soppiatto verso la porta d’ingresso della sua villetta a schiera, su cui qualcuno aveva scritto Salonkommunist Hier. Nel leggere, Dino fu preso da un brivido che lo scosse da capo a piedi, mentre si rendeva conto che aveva bisogno di urinare. Deglutì. Prese le chiavi dalla tasca a fatica, con la mano tremante, ma purtroppo constatò che la porta era già aperta. Alzò lo sguardo e, in cima a quest’ultima, fece caso a un paio di telecamere che se ne stavano appollaiate come degli avvoltoi, in attesa di spolpare la carcassa della sua vita privata. Aprì adagio, con crescente inquietudine, mentre le viscere gli si contorcevano. Deglutì ancora. Finalmente fu in casa, posò le chiavi sul tavolino, percorse l’ingresso a passi lenti, con aria sempre più preoccupata e si avviò verso la porta del salone, aperta per metà. Si fermò per un momento: da lì, fu in grado di intravedere l’inconfondibile volto del Capitano, che in quel momento stava facendo un discorso in diretta nazionale a reti unificate, infarcito di slogan nazionalisti contro l’Unione Europea, contro l’Euro, magnificando solennemente, modulando il tono della voce in base ai dettami impartiti da “La Bestia”, i benefici di una nazione sovranista e indipendente. Il Capitano sedeva alla sua scrivania, indossando il vistoso giaccone della Polizia di Stato, con alle spalle il tricolore.

– Amore, bambini, ci siete? Papà è tornato! – fece Dino con voce tremante. Un silenzio atroce, in risposta.

L’inquietante presentimento si rafforzò, Dino procedette verso la porta del salone, vi appoggiò la mano e la aprì del tutto. E vide.

Vide i corpi impiccati della sua signora e dei gemelli Venìti, col capo reclinato, gli occhi chiusi, lividi in volto, penzolanti dal soffitto.

Dino si accasciò in ginocchio, strizzò gli occhi con tutte le sue forze, strinse i pugni, portandoli al petto, rivolse il capo al cielo e spalancò la bocca, emettendo un urlo muto. Il dolore era così disperatamente lancinante che non fu capace di proferire alcun suono, né di versare una lacrima.

Quando li riaprì, Dino, come di sorpresa, si ritrovò nuovamente in piedi, nella cabina elettorale numero due.

Le schede giacevano lì, aperte, nessuna croce era stato apposta su nessun simbolo. Si voltò di scatto, emettendo un rapido respiro, con la fretta di chi vuole immediate rassicurazioni: alle sue spalle, c’era nuovamente la tenda.

Dino si girò nuovamente verso le due schede, lievemente affannato, con la bocca aperta per metà e gli occhi spalancati.

– Cristo Santo, che botta! – sussurrò tra sé e sé. Tirò un enorme sospiro per scrollarsi di dosso l’inquietudine e, finalmente, capì.

Alzò gli occhi al cielo, rasserenato, fece ancora un respiro profondo e li richiuse. Un sorriso si disegnò sul suo volto. Ora sapeva quello che c’era da fare.

Uscì dalla cabina, con le due schede accuratamente piegate, le inserì nell’enorme scatola di cartone, restituì la matita allo scrutatore, al quale subito dopo strinse la mano energicamente, ritirò il documento di identità, salutò educatamente la commissione elettorale e uscì dall’aula.

Sua moglie e i bambini erano lì ad aspettarlo.

– Ci hai messo solo due minuti. Sei stato comunque più lento di stanotte! – fece sua moglie, sarcastica.

– Ciao, amore mio! – rispose Dino euforico – sono così felice di rivederti! – le cinse un fianco e le diede un bacione sulle labbra.

Sua moglie, stupita da tanto ardore, rimase basita: – Ti senti bene, Dino? Non mi hai nemmeno dato del Lei stavolta.

– Ascoltami, amore mio – proseguì Dino – C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare prima possibile…

– Cosa?

– Scopare.

Sua moglie in tutta risposta, gli tirò un ceffone in pieno volto.

– Ti sembra questo il modo di parlare davanti ai bambini?

Tremula Era

Tremula Era,
teso contegno,
cede all’impegno,
di star intera.

Tremule mura
le sue certezze,
sin interezze,
di ragion pura.

Tremule gote,
tonde, scarlatte,
soffici, intatte,
Ella ebbe in dote.

Tremuli occhi,
pieni di rabbia,
dune di sabbia,
le vie ch’imbocchi.

Tremula alma,
l’odio e l’amore,
strozzan un cuore,
che brama calma.

Tremula Dea,
maestà Pagana,
nutrice arcana,
d’ego si bea.

Dino Venìti alle Urne – Parte 2

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(…Continua da qui – Parte 1)

Dino ebbe un attacco di panico. La sua schiena era imperlata di sudore freddo, il respiro gli si fece affannoso, mentre continuava a girare su se stesso e a tirare calci e pugni sempre più frequenti alle pareti della cabina. Conosceva fin troppo bene quella sensazione. Claustrofobia. La stessa che provava da bambino quando rimaneva bloccato per ore in ascensore, a causa della negligenza di quel terrone dell’amministratore del condominio in cui viveva con i suoi genitori in Puglia.

Di colpo, mentre ruotava su se stesso sempre più vorticosamente, urlante e sudato, un soldo di cacio alto un metro e trenta, coperto da un manto blu che gli arrivava alle caviglie, con il capo coperto da un cappuccio da cui non trapelava alcun volto, ma solo due luci bianche come stelle lontane a funger da occhi, si materializzò improvvisamente nel cubicolo. Dino caddè al suolo, portò alla fronte e al petto i palmi delle mani, strisciò di culo in quei pochi centimetri di suolo disponibili, sgranò gli occhi ed emise un grido di terrore. La sua fronte era ricoperta di goccioline, come rugiada al mattino. Osservò il soldo di cacio per un minuto abbondante, con il labbro inferiore che gli tremava, gli occhi pieni di orrore e il fiatone, finché finalmente, non riuscì a proferire:

– E tu chi cazzo sei?

– Modera il linguaggio, cazzone. – rispose il soldo di cacio. La sua voce era la sovrapposizione di due suoni fanciulleschi, uno maschile e uno femminile. – Vuoi rovinarti la reputazione in questo modo? – Il soldo di cacio faceva riferimento al fatto che Dino Venìti soleva vantarsi, con i suoi amici, parenti, colleghi e con i parrocchiani del quartiere, di non aver mai pronunciato una parolaccia in vita sua. – Hai idea, cazzone, di che cazzo di casino hai appena combinato?

Dino tremava, mentre guardava il soldo di cacio, colmo di terrore: – Ti prego, non farmi del male!

– Non ne ho la minima intenzione, cazzone. Ci hai pensato benissimo da solo a farlo. E adesso ne conoscerai la ragione. – Il soldo di cacio si lanciò in una risata sguaiata da incubo, che risuonò infera all’interno della cabina senza via d’uscita, che costrinse Dino a pigiare con forza le mani su entrambe le orecchie, mentre stringeva gli occhi sperando che quell’incubo svanisse come un’allucinazione. Dino riaprì gli occhi, ma il piccoletto era ancora lì, che lo fissava intensamente nelle iridi con i suoi occhietti lucenti:

– Guardami bene in faccia, stronzetto perbenista, perché ora vedrai con molta chiarezza le conseguenze delle tue azioni. Lo sai chi hai tradito, facendo questo?

La luce dagli occhietti dell’inquietante piccoletto si fece più intensa, finché un candore non accecò completamente Dino, riempiendo il cubicolo. A un tratto, un ricordo vivissimo, tangibile, si riaffacciò alla sua mente. Ora ricordava. Sì che ricordava.

E rivide. Rivide se stesso, in quinta ginnasio. Aveva sedici anni. Capelli nero corvino, pettinati, puliti. Camicia bianca, pantaloni eleganti grigi e scarpe nere, abbinate alla capigliatura. Suo padre, l’architetto Dino Veniti Senior, era passato a prenderlo con la sua BMW 320d all’uscita da scuola. Il giovane Dino salì in auto, zaino in spalla e cominciò a raccontargli la giornata:

– Ciao Papà – lo baciò due volte sulle guancie – abbiamo avuto una discussione di politica tra compagni di classe, ma sai, io non ne capisco molto e non sono riuscito a controbattere.

Suo padre, uomo costantemente pieno di rabbia, digrignò i denti, con le labbra serrate, mentre il suo volto si faceva cremisi e cominciò a soffiare dal naso, a guisa d’un toro. Era solito sfogare sul figlio le sue frustrazioni lavorative, trattandolo con ingenerosa severità. Non era mai stato fiero di lui. Gli disse con durezza:

– Tu di politica non capisci un cazzo!

Dino, ragazzo fragile come un cristallo, si sentì profondamente mortificato da quell’affermazione. Faceva il possibile per compiacere quell’uomo rigido e severo, vecchio comunista in carriera arricchito, che non lo riteneva all’altezza della vita. Riteneva la sua eccessiva sensibilità poco consona a un uomo, poco virile, poco maschia.

– Se vuoi saperne di più, devi leggere i giornali. Non vedi me? Tutti i giorni compro La Repubblica. Leggiti le notizie di politica e di cronaca. Se poi vuoi farti un’idea chiara di come vanno le cose in Italia, devi leggere gli articoli di opinione. Chiaro? In particolare, la domenica, leggiti l’editoriale di Eugenio Scalfari. Ti aiuterà a formarti un’opinione chiara e precisa su come funziona il nostro paese.

Dino prese alla lettera l’ammonimento e la lezione del padre. Da quel giorno, cominciò a divorare notizie di politica, informandosi solo ed esclusivamente su La Repubblica, ritenuto, dal suo punto di vista, l’unico giornale in grado di avere in mano la verità dei fatti, una sorta di Vangelo della sinistra moderata. In breve, Dino si trasformò in un vero paladino dei progressisti e fece dell’antiberlusconismo la sua nuova religione, ritenendo chiunque votasse per il centro-destra malvagio e corrotto. Sentiva finalmente di essere dalla parte del giusto, dei buoni, parte di qualcosa, come suo padre, al contempo detestato e idealizzato. Finalmente aveva sufficienti argomentazioni per tenere testa ai suoi compagni di classe di orientamento politico opposto.

Il ricordo cominciò a dissolversi, in sinergia con l’intensità della luce emessa dagli occhietti del soldo di cacio.

– Papà… – sussurrò Dino, con le lacrime salate che cominciavano a sgorgare dai suoi occhi. – Che cosa ti ho fatto! Perdonami! -. Emise un rumoroso e doloroso singhiozzo, mentre un nodo lo strozzava in gola.

– E questo è solo l’inizio, cazzone piccolo-borghese – gli rispose l’ometto inquietante. – Quello che hai fatto avrà delle profonde conseguenze anche sul futuro, non solo del paese, ma anche sul tuo. Guarda un po’.

La cabina si fece di nuovo completamente bianca.

Dino vide ancora. Vide il futuro che si srotolava placidamente dinanzi ai suoi occhi neri, come un tappeto in discesa lungo un’alta scalinata.

Eccome se vide. Quante cose vide. Vide i risultati di quelle elezioni, con Mentana che annunciava la vittoria della coalizione di destra, guidata dalla Lega di Matteo Salvini e da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, per un solo voto. Un unico voto secco. Un solo, determinante, maledettissimo voto, cazzo.

Evento praticamente impossibile, mai accaduto nella storia elettorale di qualsiasi paese democratico.

– Indovina a chi appartiene, quell’unico, minuscolo voto, insignificante testa di cazzo benpensante? – fece il nanerottolo.

– Ma era esattamente quello che volevo questa volta! Dove sarebbe il problema? – piagnucolò Dino.

– Guarda, cazzone ipocrita. Guarda bene cosa succede tra poco. – disse il mostriciattolo dalla voce doppia, ridendo orribilmente.

E Dino vide ancora. Vide Matteo Salvini giurare fedeltà alla Repubblica Italiana nelle mani del Presidente. Vide il voto di fiducia al governo Salvini I passare al Senato e alla Camera per appena due voti di scarto. Vide deputati e senatori del PD e del Movimento Cinque Stelle passare dalla parte della maggioranza, per pura soggezione, timore riverenziale e totale soggezione alla sua figura carismatica e mediatica del nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri. Vide la prima grande Riforma della Costituzione, che trasformò l’Italia in una Repubblica Presidenziale, votata quasi all’unanimità dal Parlamento. Vide Matteo Salvini togliere la fiducia al suo stesso governo per tornare alle urne. Vide Salvini vincere le elezioni e diventare il primo Presidente della Repubblica eletto a suffragio universale dai cittadini italiani. Vide Salvini promuovere nuove riforme della Costituzione, sfruttando bachi ed errori nella prima riforma, che l’avevano già di per sé indebolita, che aboliva pesi e contrappesi e concentrava il potere interamente nelle sue mani, i pieni poteri che da tempo bramava con ardente desiderio. Vide il parlamento Italiano procedere spedito con ulteriori modifiche alla ormai irriconoscibile carta del 1947, istituendo il ruolo di Capitano della Nazione, che fondeva i ruoli del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Repubblica in un’unica carica. Vide il nuovo regime abolire qualsiasi forma di opposizione, sindacale e partitica, prendere il controllo della stampa, delle televisioni, di internet, chiudendo giornali, programmi televisivi, siti e blog. Vide sfilate dell’Esercito Italiano in onore del Capitano. Vide quadri e fotografie di Matteo Salvini ovunque, nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi di lavoro pubblici e privati. Vide titolare le maggiori piazze italiane al leader della Lega, dove al contempo venivano erette statue in sua memoria.

– Ma questo è quello che inconsciamente ho sempre sognato! – fece Dino, implorante e disperato.

– Aspetta, cazzone, aspetta – replicò il piccolo omuncolo – Non è ancora arrivata la parte migliore di questa storia. Mettiti bello comodo. – E rise ancora, quel piccolo mostro, di gusto.

E Dino, per l’ennesima volta, vide. Un nuovo tuffo nel passato, qualche mese prima. Rivide quell’ultimo pranzo di Natale, assieme ai suoi genitori, ai quali aveva annunciato che era ormai stufo dell’inconcludenza e dell’autoreferenzialità dei personaggi orbitanti nell’area del centro-sinistra e che quella volta avrebbe dato il suo voto alla coalizione di centro-destra. Rivide la rabbia addolorata di suo padre, farsi rosso in volto e cominciare a sbuffare dal naso, per la delusione e per il dolore nel vedere quell’ingrato del sangue del suo sangue ribellarsi al suo volere, prendere i suoi insegnamenti, accartocciarli e gettarli via in un cestino.

E rivide ancora suo padre. Lo vide, seduto in poltrona, il giorno in cui Salvini divenne Presidente della Repubblica Italiana. Vide suo padre addormentarsi, con la televisione accesa, mentre trasmetteva il telegiornale. Vide sua madre avvicinarsi alla poltrona per svegliarlo e andare a letto insieme. Vide sua madre rendersi conto all’improvviso che suo marito non si sarebbe più svegliato. E Dino provò una colpa improvvisa, un pugno nello stomaco, uno strappo che lacerava le sue carni. Con il suo voto, esattamente il suo di voto, aveva ucciso suo padre. Quella sarebbe stata la sua croce, la sua condanna. Per il resto della sua vita.

– Papà, no! No! No! – urlò Dino. Ormai piangeva e urlava come un disperato, profondamente pentito.

L’ometto inquietante lo osservava silenzioso, un silenzio dal sapore d’un muto giudizio. Ma il tormento non era ancora terminato. Questi pronunciò, distogliendo Dino dalle sue lacrime amare:

– Sei pronto per il gran finale?

– Che altro c’è ancora? Basta, ti scongiuro! – supplicò Dino.

(Continua…)

 

Burattinaia

Mentre già fondo e finisco nel nero
pece di colpa, dolore e presagio,
dentro l’oscuro già fluttuo a mio agio,
un grave in cor che mi strozza ormai fero.

 Corto il respiro e le membra cascanti,
sul trono mio già s’adàgian rovesce,
pallide s’apron al cielo che mesce
grigi ed azzurri nell’alto imperanti.

 Mentre lo stato permane immutato,
per quella colpa matrigna trasmessa,
che come chioccia la trama ella intessa,
come d’un tempo Giocasta ha imperato,

 ecco improvvisa la luce divampa,
leva nell’àere, destino nell’onde
d’un mare blu che s’infrange su sponde
di terre ignote cui beltà s’accampa.

 Burattinaia, disciolta nell’acque,
torno a elezioni, ad arbitrio vitale,
seppur errante ed in lotta mortale,
per fin la voce tua d’un tratto tacque.

Dino Venìti alle Urne – Parte 1

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Erano le undici di mattina di una domenica d’inverno. Era appena terminata la Santa Messa. Dino Venìti, la signora Venìti e i due gemelli, Dino Venìti I e Dino Venìti II uscirono dalla Parrocchia dei Santi Martiri Gervasio e Protasio, sorridendo e tenendosi per mano. I bambini sorridevano in maniera vagamente ostentata, secondo i dettami e le regole stabilite dal loro papà e dalla loro mamma, ai quali avevano imposto di sorridere in qualsiasi circostanza della loro vita, anche la più dolorosa, e di reprimere qualsiasi pensiero negativo, perché questo, a detta loro, era ciò che facevano i bravi bambini che andavano in paradiso e che un domani, con questo atteggiamento positivo, si sarebbero integrati in qualsiasi tipo di società. La gente, fuori dalla chiesa, osservava la famiglia Venìti con ammirazione e invidia: erano semplicemente perfetti, non c’era nessuna sbavatura, né macchia. Incrociarono la signora Manzoni con suo figlio Gaetano, coetaneo di Dino:

– Buongiorno signora Manzoni, buongiorno Gae, e buona domenica. Come state?

L’anziana signora sorrise compiaciuta: – Benissimo, grazie. E’ un piacere incontrare una famiglia come la vostra, così unita e felice. Siete un esempio e una benedizione per tutti noi e per tutta la nostra comunità. E’ raro incontrare delle brave persone come voi.

– Troppo buona, signora! Le auguro una buona giornata, arrivederci!

– Arrivederci, dottor Venìti!

Dino Venìti si allontanò con la famiglia. La signora Manzoni, una volta distanti, disse a suo figlio Gaetano, con disprezzo:

– E tu? Come mai alla tua età vivi ancora con me e non ti sei trovato una donna? Hai intenzione di mettere su famiglia, razza di fallito? Che figura ci faccio con la gente del paese, con i vicini, con le mie amiche?

Il figlio arrossì e chinò il capo mortificato. Dentro di sé, sapeva che non avrebbe mai trovato una donna in vita sua. Non ce l’avrebbe mai fatta a liberarsi di quella madre ingombrante e castrante, con la quale dormiva ancora assieme nel letto matrimoniale, dopo che era rimasta vedova. Sua madre era ormai mal digerita come un pasto natalizio quotidiano che si protrae per decadi, ma tutto sommato comoda.

– E adesso sapete dove si va? – chiese Dino Venìti ai suoi pargoli, con un entusiasmo al limite dell’euforia.

– A votare! A votare! Anche noi vogliamo votare! – risposero i due bambini in coro, pieni di vita.

– No, bambini – replicò il papà, facendosi paziente e comprensivo – sapete che non avete ancora i requisiti per esercitare questo diritto, in quanto minorenni.

– Che vuol dire requisiti? – chiesero in coro i due pargoletti.

Dino Venìti ebbe un attimo in cui si rabbuiò, durante il quale, per un breve istante, provò una cocente delusione, mista a rabbia, avendo constatato che la sua prole, sangue del suo sangue, all’età di cinque anni, ignorasse tuttavia il significato della parola requisiti. Ciò nonostante, non redarguì i suoi pargoli, come avrebbe fatto suo padre con lui, ma al contempo non fornì loro alcuna spiegazione.

– Andiamo a scuola – disse ai figli e alla consorte, ricomponendosi e recuperando la sua classe. – Rimanga un po’ con loro, signora Venìti, ho bisogno di allontanarmi per riflettere un attimo.

Sua moglie replicò lievemente piccata: – La smetti di chiamarmi signora Venìti? Siamo sposati da otto anni ormai!

– No. – replicò fermamente il marito. Sua moglie si adombrò e abbassò gli occhi. Per l’ennesima volta, suo marito le aveva spezzato il cuore. Ingoiò amaramente quel rospo, ma Dino se ne avvide subito e la redarguì severamente: – Non farti vedere rabbuiata. Vuoi che la gente pensi che siamo una famiglia litigiosa?

La moglie dipinse sul suo volto un sorriso tiratissimo, mentre le mandibole cominciavano a dolerle e dentro si sentiva morire. Avrebbe voluto urlare al mondo e piangere istericamente tutta la sua disperazione. La sera prima avevano fatto l’amore in modo totalmente meccanico. Lui era durato trenta secondi, dopo averla penetrata in posizione missionaria senza uno straccio di preliminari, per poi cadere addormentato subito dopo aver finito, dall’altro lato del letto.

– Così va meglio! – sorrise Dino, guardandola con la stessa soddisfazione con cui un pittore guarda un suo quadro finalmente ultimato.

Si avviarono a passo lento verso la scuola elementare, dove aveva sede il seggio elettorale presso cui la famiglia Venìti votava. Dino aveva preso da diverso tempo una decisione e si sentiva ringalluzzito all’idea di dare finalmente una svolta concreta alla sua vita. Dopo anni trascorsi a dare il suo voto esclusivamente a partiti e coalizioni di centro-sinistra, quell’anno, per la prima volta in vita sua, decise che era giunta l’ora di dare una possibilità a un partito politicamente schierato dalla parte opposta: avrebbe apposto la sua croce sul simbolo della Lega, dando fiducia alla coalizione guidata da Matteo Salvini. Aveva cominciato finalmente ad ammettere a se stesso che la concezione nazionalista, la difesa dei valori cristiani e l’idea di famiglia che portava avanti l’alleanza di destra era più vicina a quello in cui credeva.

Raggiunsero la scuola ed entrarono nell’edificio. Proseguirono adagio lungo il corridoio, coperto di disegni e poster realizzati dagli alunni, verso la sezione elettorale di appartenenza. Raggiunta l’aula, con ostentata galanteria, Dino lasciò votare la signora Venìti per prima. Quest’ultima, sbrigò la faccenda rapidamente e uscì dopo pochissimo tempo. Il momento tanto atteso per Dino era giunto, che nel frattempo era rimasto fuori con i gemelli ad aspettare la sua compagna di vita. Lasciò i figli a sua moglie ed entrò nella stanza.

Dino consegnò la carta di identità e la sua tessera elettorale agli scrutatori, i quali segnarono il numero del documento sull’enorme registro e apposero il relativo timbro sulla scheda. Si avvicinò quindi all’urna, dove un altro scrutatore gli consegnò le due schede, per la Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica, e la matita.

– Cabina numero due! – esclamò lo scrutatore, con piglio professionale. Dino Veniti girò attorno ai banchi su cui appoggiava l’urna di cartone, si approssimò al cubicolo, scostò la tenda, entrò e la richiuse alle sue spalle.

Aprì le due schede con estrema cautela e le pose delicatamente sulla mensolina all’interno. Ci pensò ancora per pochi secondi, picchiettando leggermente la matita contro la guancia destra, con aria fintamente indecisa, e alla fine fece quello che andava fatto: votò Lega, per entrambi i rami del Parlamento. – In bocca al lupo, Capitano! – pensò sorridendo.

Chiuse le due schede, si voltò per uscire, ma in quel preciso istante sobbalzò: la tenda era sparita e al suo posto c’era un’altra parete.

Rimase perplesso per trenta secondi buoni, fissando quel pannello in una muta domanda e rendendosi conto che la cabina non aveva più vie d’uscita. Si avvicinò alla parete, la tastò brevemente con aria interrogativa e vi appoggiò sopra l’orecchio destro in modo da udire che cosa stesse accadendo all’esterno: ricevette, in tutta risposta, un silenzio di tomba. Iniziò a quel punto a bussare contro il pannello con delicatezza e disse: – Mi sentite? C’è qualcuno lì fuori? E’ sparita l’uscita e sono rimasto chiuso dentro!

Dino non ricevette risposta alcuna. Ci riprovò ancora, svariate volte, ma invano. A quel punto, cominciò a preoccuparsi e sentì l’ansia in procinto di pervaderlo. Iniziò a girare su se stesso e a tirare pugni e manate sempre più forti contro tutte e quattro le pareti, mentre pronunciava, con enfasi crescente:

– C’è qualcuno lì fuori? Rispondete! Aiuto!

(Continua…)

 

Ilario

– Ho appena donato venti euro per Wikipedia!

Ilario, giovane informatico, era seduto alla sua scrivania, come di consueto, mentre digitava freneticamente codice C++. Si sentiva euforico ed entusiasta. Era solito esserlo, amava condividere e ostentare con i suoi colleghi la sua produttività, la sua propositività, il suo ottimismo e la sua volontà di “fare squadra”, mostrandosi costantemente disponibile e servile verso i suoi superiori. Aveva compiuto da poco trent’anni. Cattolico praticante, di bell’aspetto, era sposato con una donna bellissima, secondo però canoni estetici basati sul sentire comune e non sul suo. A volte faceva fatica a fare l’amore con lei, ma ciò nonostante, avevano concepito un bimbo che adesso aveva due anni. Ilario non voleva dare peso alle ombre della sua esistenza: sentiva di avere una vita perfetta e questo lo faceva sentire onnipotente. Nella convinzione di avere il mondo in mano e una protezione speciale da parte del Signore, era sicuro che il suo stile di vita lo avrebbe portato lontano.

Il primo giorno di lavoro, in ufficio, pesando attentamente le parole e ostentando una fine diplomazia, dichiarò di non essersi mai arrabbiato in vita sua e di essere stato sempre politicamente corretto nei confronti degli altri, in particolar modo in ambito professionale. Seguiva alla lettera e in maniera didattica il Vangelo, accompagnando al contempo le sacre scritture a manuali di miglioramento personale, che divorava con voracità cannibalesca. Rientrato a casa, soleva chiudersi per ore in bagno, dove preparava una collezione di discorsi da fare in ufficio, in modo da fare bella figura con i suoi colleghi, inerenti a tematiche professionali, economiche, politiche e sociali, senza naturalmente prendere una posizione chiara in merito. Era solito registrare questi discorsi sul suo smartphone, per poi riascoltarli in modo da modulare il tono di voce affinché risultasse il più persuasivo e convincente possibile. Oltre a ciò, pronunciava i suoi monologhi dinanzi allo specchio, in modo da perfezionare al contempo la gestualità delle mani e la postura. Sua moglie, cristianamente, sopportava l’idea di avere un giovane marito preso esclusivamente dal lavoro. Era un buon partito, in fin dei conti, e anche un bell’uomo, ma lei cominciava a sentirsi malinconica e spenta, trascurata.

Dino era il suo vicino di postazione. Disilluso, disincantato, realista, era in ogni caso il collega più stimato del suo dipartimento. Un colpo e un centro era la sua filosofia: lavorava nella giusta misura e soprattutto, si occupava unicamente di quello che lo interessava davvero. Con questo spirito, era riuscito a portare all’azienda pochi, ma interessanti progetti e anche un po’ di fatturato, nonostante il suo apparente distacco nei confronti delle cose. Questo atteggiamento aveva dato una sincera credibilità agli occhi dei suoi superiori, che gli davano piena fiducia e incarichi prestigiosi.

Dino aveva capito immediatamente chi era Ilario, fin dal primo giorno in cui gli aveva stretto la mano. Dal suo arrivo in ufficio, non aveva fatto altro che studiarlo e osservarlo mentre recitava la sua parte. Aveva immediatamente captato la sua irritante tendenza a non prendere mai nessuna posizione precisa e a cercare di dare ragione a chiunque, vittima com’era della sua stessa ambizione e della sua dipendenza dal compiacimento altrui.

Un po’ con fare malizioso, un po’ per dargli una svegliata, in risposta all’entusiasmo del giovane collega relativo alla sua donazione, proferì poche e semplici parole, con tono autenticamente solenne:

– Credo che Wikipedia non possa essere considerata attendibile come fonte d’informazione.

Ilario percepì quella frase come una scudisciata sul ventre, come una scarica elettrica che all’improvviso, lo fece vacillare. Senti le carni strapparsi dalle ossa. Si girò e squadrò Dino con occhi indemoniati e pieni di odio, reclinando la testa e incrociando le braccia, cercando di darsi autorevolezza in base a quanto appreso dai manuali di auto-miglioramento, ma risultando agli occhi di Dino semplicemente miserabile e ridicolo. Dino si divertiva a farlo cadere in contraddizione, ma al contempo provava una certa tenerezza nei suoi confronti.

– In che senso? – Proferì Ilario. Lo diceva spesso, in tono irritato, quando si sentiva colto in castagna. Pronunciava quelle tre parole socchiudendo gli occhi con fare fintamente investigativo e con aria vagamente minacciosa. Lo faceva nella speranza di mettere in soggezione l’interlocutore, sperando di avere la meglio nella discussione. Ilario non concepiva la possibilità di un dialogo costruttivo, doveva averla vinta sempre e comunque. Non poteva permettersi che qualcuno avesse la meglio su di lui. Questo faceva vacillare le sue certezze, la sua immagine perfetta, il suo essere un soldato di Cristo. Non tollerava che qualcuno potesse contraddirlo, portando con fierezza quella variante al femminile del nome Ilaria, che gli dava un tocco così dandy. Non poteva deludere inoltre le aspettative di sua madre, verso la quale aveva un complesso di Edipo irrisolto che, in alcune circostanze, si tramutava in una vaga fantasia sessuale nei confronti di quest’ultima. L’immagine di lei che lavava i piatti ogni tanto ancora lo eccitava, ma Ilario reprimeva con durezza questo pensiero, ingoiandolo come un rospo amaro.

– Dico che mi sembra assurdo che un’enciclopedia online venga riempita da utenti anonimi i cui inserimenti vengono valutati da altri utenti a loro volta anonimi in base a non si sa bene quali competenze. Chi c’è dietro gli articoli di filosofia? Di letteratura? Di psicologia? Di matematica? Di fisica? Persone competenti del settore o gli stessi che votano sulla piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle?

A quelle parole, Ilario impallidì e cominciò a farfugliare. Sapeva che stava per andare in corto circuito. Provò un lieve senso di vertigine e una leggera nausea. Dino dentro di sé gongolava: aveva fatto centro anche stavolta, lo aveva smascherato. Si sentiva però un po’ in colpa per aver umiliato il suo giovane collega.

– Ma è gratuita!

– Siamo d’accordo, la considero anche io una grande invenzione. Dico solo che quello che c’è scritto va preso cum grano salis e che non la userei mai per fare una ricerca scientifica o per scrivere un articolo su Primo Levi.

Dino amava infarcire i suoi discorsi con dei latinismi. Gli piaceva ostentare la sua cultura da Liceo Classico, sapendo che Ilario aveva frequentato l’ITIS. Non lo faceva per sentirsi superiore o migliore di Ilario. Lo faceva per farlo sentire inferiore, un po’ per divertimento, un po’ per insegnargli la realtà, che Dino conosceva ormai piuttosto bene.

– Come tutte le cose, del resto! – replicò Ilario con una frase stereotipata e qualunquista, della quale non era convinto minimamente e che aveva sentito chissà dove. Si espresse con voce tremante, mentre gli occhi gli si fecero lucidi, pieni di rabbia e dolore. Chissà, quella frase, da dove proveniva davvero: se da lui, da sua madre, da suo padre, da sua sorella, dal suo confessore e padre spirituale Don Egidio. Dentro di sé, Ilario provava sentimenti ambivalenti per Dino. Da un lato lo considerava una sorta di mentore, un fratello maggiore irraggiungibile, che seduceva con il suo disincanto e la sua aria malinconia, il più delle volte usata strategicamente al solo scopo di evitare rotture di scatole. D’altro canto, Ilario odiava profondamente Dino, verso il quale, senza esserne del tutto consapevole, provava una grande invidia, che gli causava spesso notti insonni. Questo non lo avrebbe mai riconosciuto pienamente: Ilario non era in grado di ammettere a sé stesso di provare rabbia e odio per qualcuno, imprigionato com’era nelle fitte maglie di un Cattolicesimo anni cinquanta di stampo meridionale e intimorito com’era dall’idea di finire all’inferno.

Dino chiuse la conversazione. Era un tipo pragmatico che non amava sprecare energie in discussioni inutili e si rimise a lavorare.

Anche Ilario si rimise a lavorare, ingoiando il suo violento e silente rancore e rivolgendosi a un altro collega con il consueto finto ottimismo frutto di interpretazioni sbagliate dei testi sacri e di anni e anni di letture di manuali tossici.

Ma quella rabbia lo logorava come un tarlo, e si faceva, giorno dopo giorno, sempre più insistente.

Anche quella notte, Ilario non chiuse occhio.

Il giorno dopo, la recita sarebbe cominciata di nuovo.

 

Messaggio nella Bottiglia

Scrivo, perché mi piace.

Scrivo, perché ho delle idee.

Scrivo, perché sento di avere qualcosa da dire.

Scrivo, perché, lo riconosco, mi sento davvero molto solo a volte.

Scrivo, perché ciò che scrivo sia segnale utile che prima o poi emerga da tanto rumore gaussiano.

Scrivo, perché ciò che scrivo sia un messaggio nella bottiglia, che viaggia nell’oceano dei nostri tempi dispersivi.

Scrivo, perché questo messaggio nella bottiglia, prima o poi raggiunga la riva della Terra Promessa.

 

 

La Posta di Dino – Ricominciare alla grande

Caro Dino,

mi chiamo R., ho 35 anni. La mia vita fa schifo. I miei mi trattano ancora come un ragazzino, mi sono sposato con una donna scontenta che non si concede mai sessualmente e mi fa sentire un fallito, i miei amici sono una manica di patetici superficiali, i miei colleghi mi assillano con le loro frustrazioni lavorative, il mio capo mi tratta come uno stagista di primo pelo. Avrei una gran voglia di mandare tutti al diavolo. Non sopporto più nessuno. Persino quando cammino, ho l’impressione che gli sconosciuti vogliano approfittarsi di me. Aiutami.

R.

Caro R.,

se pensi che persone che non conosci possano avercela con te, ti dirò l’esatto opposto di quello che ti direbbe chiunque: non è un impressione, la gente ti odia davvero. Tu non piaci a nessuno. Anche a me non piaci. E lo sai perché? Perché sei una vittima degli eventi e ti crogioli masochisticamente nel tuo vittimismo da quattro soldi, per scelte tra l’altro che hai fatto tu, perché sei fondamentalmente un pigro del cazzo, un mollusco e un pecorone, per usare degli eufemismi.

Ti darò comunque un metodo infallibile per uscire da questa situazione. Inizia a uscire di casa e mentre cammini, in solitudine, ferma la gente che incontri per strada, fai un bel respiro e, con occhi spalancati, proferisci solennemente quanto segue:

Io sono il Messia.

Fallo costantemente e con convinzione, mi raccomando, tutte le volte che incontri qualcuno. Ferma la gente di proposito, unicamente per pronunciare questa frase.

Successivamente, inizia a farlo anche in famiglia, tra amici, al lavoro, insomma, in tutti i tuoi abituali contesti.

Tua moglie ti assilla di richieste assurde, non è mai contenta di te e si nega sessualmente? Fai un bel respiro e, con occhi spalancati, proferisci solennemente quanto segue: Io sono il Messia. Il tuo migliore amico ti sta raccontando nuovamente che si è lasciato per l’ennesima volta con la sua compagna e si è rimesso insieme dopo averti garantito che avrebbe dato definitivamente un taglio netto? Fai un bel respiro e, con occhi spalancati, proferisci solennemente quanto segue: Io sono il Messia. In ufficio, i colleghi si lamentano con te degli stipendi troppo bassi, della qualità del caffè delle macchinette? Fai un bel respiro e, con occhi spalancati, proferisci solennemente quanto segue: Io sono il Messia. Il tuo capo ti riempie di lavori ripetitivi, alienanti, che umiliano la tua professionalità e in tutto questo ti riempie anche di insulti? Fai un bel respiro e, con occhi spalancati, proferisci solennemente quanto segue: Io sono il Messia.

Per fartela breve, d’ora in avanti, a chiunque voglia interloquire con te, dopo aver fatto un bel respiro, con occhi spalancati, solennemente, non dovrai rispondere altro che questo:

Io sono il Messia.

Nel giro di una settimana, vedrai che ti lasceranno tutti in pace. Anche a casa dal lavoro. Se avrai ancora una casa ovviamente, visto che tua moglie sicuramente ti lascerà e se la terrà e tu, alla veneranda età di trentacinque anni, dovrai di nuovo tornare a casa dei tuoi genitori, anche se sicuramente e con buona ragione non avranno nessuna voglia di ospitarti.

Sorridi comunque, perché potrebbe essere una buona occasione per ripartire da zero. Qualcuno potrebbe prenderti sul serio, iniziare a seguirti e tu potresti provare a minacciare uno scisma all’interno della Chiesa Cattolica, se non addirittura, se l’ambizione non ti manca, tentare di fondare una nuova religione.

In bocca al lupo.

Dino Veniti