Lettera a un vecchio amico

Quando per la prima volta ho sentito dire da qualche parte, forse in una canzone di Ligabue, che le persone vanno e vengono, non ci avevo dato molto peso. L’ho sempre considerata una stupida frase fatta. Avevo forse quindici o sedici anni. L’adolescenza vissuta in pieno sembra infinita. Quel periodo sembra eterno e immutabile. Ti fa sentire immortale. Il nostro gruppo di amici è stato così unito negli anni delle superiori che certe cose si fa finta di non vederle. Si ignorano emozioni e antipatie, pur di stare insieme. Si ignora il sospetto che quei tempi possano prima o poi finire.

Caro Riccardo, se non ricordo male, l’ultima volta che ci siamo visti correva l’anno 2005. Era estate. C’era una festa nella casa in campagna di qualcuno. E bevevi birra. Tu che al liceo non hai mai toccato un goccio di alcol. Credo che quella sera ci siamo salutati a malapena. Sono passati quattordici anni.

Avevamo costruito un bel rapporto, negli anni delle superiori. Eravamo coetanei, in due classi diverse, con molti professori in comune. Ti ricordi la tua Fiat Punto verde? Prendere la patente è stata una delle più grandi conquiste al compimento dei nostri diciotto anni. Io, invece, avevo una Ford Ka in quel periodo. Ti ricordi? Sono stato il primo a prendere la patente e sei stato uno dei primi a salire su quel catorcio.

Volevo ringraziarti per avermi fatto conoscere Antonello Venditti in quel periodo. E’ un po’ che non lo ascolto, ma credo di aver capito cosa ci univa a quei tempi: una sorta di malinconia di fondo e una profonda sensibilità.

Terminato il liceo, abbiamo preso strade diverse. La stessa facoltà, ma tu sei rimasto nella nostra città. Io sono andato via. E purtroppo, quando si è così uniti e ci si vuole così bene, ho ormai capito che questo vuol dire tradirsi a vicenda. Ed è così che, tra le altre cose, il dolore dell’addio si è trasformato nel germe dell’invidia. I tuoi esami non andavano bene quanto i miei, e, quando ci siamo rivisti, hai attribuito la cosa al fatto che io avessi scelto l’università in una sede in cui lo stesso corso di laurea era più facile del tuo. In tutta risposta, ti ho detto che accampavi scuse, perché non eri all’altezza di quella facoltà. Da allora i nostri rapporti si sono incrinati e, vivendo ormai lontani, non è stato più possibile recuperare.

Poi mi è arrivato un messaggio, tre anni e mezzo fa:

– Dino, scusa se faccio l’uccello del malaugurio: purtroppo Riccardo è morto.

Non sapevo che fossi ammalato. Credimi e perdonami, eri completamente caduto nell’oblio per me. All’improvviso, sei tornato con violenza nei miei ricordi.

E ho pianto tanto per te. E se sei lassù penso che tu lo sappia e mi abbia visto.

E piango anche adesso che ti scrivo queste righe. Piango per quella giovinezza che volge al termine. Piango perché mi mancano le sigarette che abbiamo fumato insieme. Piango perché la vita mi ha portato lontano e continua a farlo. Piango perché la affronto da solo e per orgoglio non chiedo l’aiuto di nessuno, ma va bene così. Perché non voglio pesare sugli altri. Perché voglio fare esperienza. Perché mi piace l’avventura. Perché ancora non riesco a vedere l’amore degli altri come qualcosa di completamente disinteressato. Perché faccio fatica a fidarmi. Perché tutto sommato sono contento della mia vita, ma come dicevo oggi a Piero, il fatto di aver scelto di viverla a modo mio, mi porterà sempre a farmi sentire in colpa nei confronti degli altri.

Arrivederci amico mio. Sono contento di non averti dimenticato. Sono contento di trovare ancora il bello della nostra amicizia, nonostante gli screzi. Sono contento che tu mi abbia lasciato qualcosa di te.

Mi sarebbe piaciuto rivederti e fumare ancora una sigaretta assieme a te.

E magari, perché no, finalmente berci anche una birra sopra.

Un addio

Seduto in poltrona,
ti fan ben sperare:
“Bisogna sedare,
su! Mal non cagiona!”.

Deliziano bene,
ti illudono, rìdon,
“Rilassa!”, ti dìcon,
“Non porterà pene!”.

Poi aprono e scrùtan,
iniettano e attèndon,
pazienza non pèrdon,
oh, quanto mi ùrtan!

Ed eccoli entrati,
con l’aria e col ferro,
le palpebre serro,
rumori vetrati.

Ed eccolo via,
le cremisi gambe,
che danzano sambe,
non più cosa mia.

Su un pezzo di cuore
sì candida tuona,
la bella corona.
Addio, vostro onore!

Sfigo Ricky – Capitolo 1 – L’alitosi

L’alitosi di Ricky ha origini controverse.

Si pensava che uno dei problemi che più attanagliano il genere umano e i rapporti sociali non gli appartenesse. Ma anche in questo caso ci si sbagliava.

Un giorno, terminate le lezioni e il pranzo in mensa, Ricky si trovò assieme ad altri  compagni di corso in una delle numerose sale studio dell’ateneo. Per chi non le avesse bene in mente, trattavasi di una di quelle sale studio in cui vige un tesissimo quanto religioso silenzio, popolate da altri sfigo studenti, tipicamente vestiti con maglioni a quadrettoni e jeans di tre taglie più larghe, magari già calvi alla veneranda età di vent’anni. Quel pomeriggio, mentre il nostro Ricky si accingeva a studiare con uno dei suoi tre amici, pare che la distanza che separava il suo cavo orale dal naso del malcapitato compagno a cui stava spiegando alcuni concetti di matematica discreta si sia ridotta notevolmente. Il compagno, che preferisce mantenere l’anonimato, dopo qualche minuto di stoica sopportazione, si racconta sia sbottato e abbia proferito quanto segue:

–  Ricky, prima che tu vada avanti…

–  Dimmi!

– Scusa se te lo dico, magari ce l’ho anche io…però…

– Che cosa?

– Hai un alito terrificante!!!

– …!!!

Risate grasse si fecero immediatamente strada nell’aula che accoglieva i due giovani, riferite al tanfo putrido proveniente dalla sua bocca. Altri compagni che assistevano in quel momento, dopo il birichino evento, forse colti da un temporaneo momento di pietà, decisero inizialmente di mantenere il segreto su quanto accaduto e di metterci una pietra sopra. Si proseguì dunque con gli studi, cercando di dimenticare quanto successo. Ma tra una matrice e l’altra, e monoidi e gruppi e campi ed anelli, come si poteva al contempo non esser memori di un sì divertente evento:

– Ricky, meno male che non sei il dio dei venti.

– Vi prego…ho una dignità.

– Ricky, potresti trattenere il respiro?

– Ma che vi ho fatto di male…

– HHHHHHHHAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHH!

E nasi che turavansi al sol proferire di verbo da parte dello sciagurato. E risa e lagrime divertite. Dentro di sé, Ricky era ormai conscio che un nuovo tormentone faceasi strada per arricchire le uggiose giornate dei suoi compagni, devastando, in contemporanea, l’ormai già scalfita dignità sua.

Sfigo Ricky – Prefazione

Notevoli sono i baluardi su cui si basa la sfiga di Riccardo, altrimenti detto Sfigo Ricky. In questo manuale ho voluto raccoglierle tutte, cercando di non omettere dettagli e raccogliendo le testimonianze di chi lo conosce bene. Le scoperte fatte, gli aneddoti non sono elencati necessariamente in ordine cronologico.

Preme ovviamente all’autore far conoscere il personaggio anche dal punto di vista biografico.

Nasce il 10 maggio 1978. Nel 1997 si iscrive alla facoltà di Matematica.

Null’altro da aggiungere alla sua misera vita.

L’autore precisa che Sfigo Ricky è un personaggio totalmente frutto della sua mente malata e ogni riferimento a persone, fatti ed eventi realmente accaduti è puramente casuale.

L’opinione di Briatore

Italia_Senza_Puglia_FB.jpgAnni fa, condivisi pienamente ed espressi massima solidarietà nei confronti di Flavio Briatore, dopo le affermazioni che fece a Otranto in merito allo stato delle infrastrutture atte alla sostenibilità del turismo in Puglia.

Motivo meglio le motivazioni che, da ex-pugliese, mi portarono a sostenere le opinioni del noto imprenditore piemontese. Innanzitutto, Briatore è uomo ricco e come tale merita rispetto. Figlio di insegnanti elementari, è la storia eroica di un uomo nato povero, che con la buona volontà, il duro lavoro e una ferrea autodisciplina ha preso in mano le redini del suo destino, diventando un imprenditore di successo.

Le accuse che il Briatore fece nei confronti del territorio pugliese furono sacrosante: la Puglia, ad oggi, non è minimamente attrezzata per accogliere i ricchi. D’altro canto, lui conosce questi ultimi molto bene e credo sia doveroso da parte di tutti tacere quando una persona del suo calibro esprime una sacrosanta verità. Quale Berlusconi dormirebbe in un Bed and Breakfast? Quale Marchionne avrebbe mangiato in una scrausa e anonima trattoria, magari a gestione familiare, un piatto di orecchiette con le cime di rape?

Intendiamoci: i soldi chi li porta? I Luca Cordero di Montezemolo o gli Après La Classe?

L’indignazione dei Pugliesi a fronte delle affermazioni del Flavio nazionale furono il classico esempio di chi vuol difendere lo status quo ed è contrario al progresso e al benessere, unica ragione e unico compito che spetta all’uomo in questa vita: migliorare la propria condizione ed evolversi tramite il denaro e il potere.

E’ ora di finirla con questa Puglia dei rancorosi. Ormai non si perde nessuna occasione per ricordare questi benedetti ulivi, il profumo del mare, il panino con il polipo, la birra Peroni, la burrata e le mozzarelle. Non se ne può davvero più di questa inutile e retrograda nostalgia per la “propria terra”. Basta con questa valorizzazione del territorio, anticamera dell’ozio, dell’assenteismo sui luoghi di lavoro e del reddito di cittadinanza.

Signori miei, non stiamo dimenticando forse che il paese è in crisi e serve portare progresso e modernità?
Ben venga dunque, una salutare colata di cemento, a seppellire definitivamente il Parco Nazionale dell’Alta Murgia, le spiagge salentine, il Gargano, Ostuni, Alberobello e le Grotte di Castellana. Ora più che mai, bisogna favorire lo sviluppo di SPA, Hotel a 5 stelle, ristoranti di lusso e resort.

Allora sì, e non me ne voglia Caparezza, al secolo Michele Salvemini, che potremo tutti davvero “ballare in Puglia”. Al Twiga.

 

 

Puglia

Italia_Senza_Puglia.jpgSono pugliese se non ricordo male. Da ormai ben sedici anni vivo a Milano.

Capitale della moda, motore dell’Italia, nel meneghino ho trovato il mio autentico sé, la piena realizzazione della mia persona. Tra cemento, traffico, inquinamento e dodici ore giornaliere in ufficio, fine settimana compresi, ho finalmente raggiunto l’alienazione e l’isolamento dai miei simili che tanto auspicavo.

Ritengo i pugliesi gretti, chiusi mentalmente, invadenti e invidiosi. Non è uno stereotipo, lo sono tutti, ed è scientificamente dimostrato. Sono ingenui, inconsapevoli di loro stessi e profondamente permalosi. Nei loro ragionamenti danno ancora priorità a un valore obsoleto e amorale quale la famiglia, la setta per eccelenza, all’interno della quale si perpetuano le peggiori violenze psicologiche. Non capiranno mai l’arida felicità del denaro e del potere, che eleva sugli altri e dà la possibilità di liberarsi da affetti che costituiscono unicamente un ostacolo alla volontà di potenza insita in ogni individuo.

Io no. Io non sono come loro. Io ho capito. Ho visto.

Non nascondo che, sovente, provo vergogna nel manifestare le mie reali radici. Sono ormai diversi anni che il mio eloquio è abilmente mascherato da una meravigliosa cadenza milanese, condita anche dalle consuete espressioni tipiche del giovane meneghino medio (“Figa”, “Ci sto dentro”, “Bella zio”, “Che sbatti”). Inoltre, ho solo colleghi e conoscenti settentrionali (fortunatamente non ho amici) e, se mi capita di incrociare qualche compaesano a Milano, generalmente fingo di non vederlo e cambio strada. Aggiungo anche che induco chiunque a mantenere una certa riservatezza sulle mie reali origini, invitandolo, qualora interpellato sulla questione, a dichiarare che sono in realtà milanese da svariate generazioni. Lo faccio per una questione di reputazione e di dignità personale.

Trovo insopportabile la vanagloria con cui i pugliesi considerano il loro cibo il migliore d’Italia, il loro preferire un piatto di orecchiette con le cime di rape, magari cucinato dalla mamma verso la quale nutrono fino alla morte un legame psicologicamente incestuoso, a un panino al prosciutto mangiato davanti al pc mentre si sta lavorando.

Per queste e altre ragioni, la Puglia è tra le maggiori responsabili dei problemi del nostro paese. La sua mentalità familistica ha avuto un impatto fortemente negativo sulla produttività italiana ed è una delle cause principali della crisi economica degli ultimi anni.

Riscriviamo la Storia – Papa Alessandro VI

Prega per noi, Santo Padre.

Quest’oggi la nostra rubrica si occuperà di riabilitare la figura di un pontefice definito ingiustamente controverso, su cui tanto fango è stato gettato, facendo passare in secondo piano i lati positivi della sua personalità e le sue importanti opere realizzate in qualità di Vicario di Cristo, negli anni che vanno dal 1492 al 1503. Parliamo di Rodrigo Borgia, Sua Santità Papa Alessandro VI.

Iniziamo a ridisegnarne il carattere e la personalità. Per cominciare, vogliamo invitare voi tutti a soffermarsi sul suo volto paffuto, sperando che la sua rotondità e le sue gote cremisi possano in qualche modo fare breccia nei vostri cuori. Vi sfidiamo a non trovare un’analogia con la tenerezza che suscitava il Papa Buono, Giovanni XXIII, pontefice della Chiesa Cattolica dal 1958 al 1963. 

E’ nostro preciso dovere dare un’interpretazione più veritiera e più umana della storia di questo pontefice, partendo da un affermazione che a nostro avviso costituisce un dato di fatto: costui era un uomo integro. Amava Dio, amava Santa Madre Chiesa, amava le donne e amava i suoi figli. La sua vita era vissuta pertanto con completezza. Coesistevano in lui, in maniera sinergica e armoniosa, spiritualità e carnalità. Purtroppo, la sua visione a trecentosessanta gradi è tuttora ingiustamente considerata dissolutezza. Noi, con questa rubrica, possiamo definirci dei pionieri, in quanto abbiamo il grande onore di riabilitare una volta per tutte la sua immagine. D’altro canto, quale uomo, in passato, al giorno d’oggi e anche in futuro, avrebbe la tempra, la volontà e la perseveranza di porsi alla guida di un’istituzione complessa come la Chiesa Cattolica, che ad oggi annovera fra i suoi fedeli oltre un miliardo di persone, e al contempo prendersi cura dei suoi legami di sangue?

In merito alla sua famiglia, purtroppo la storia continua a etichettarlo come uno dei massimi esponenti del nepotismo in epoca rinascimentale. Ciò nonostante, invitiamo voi tutti a mettervi nei suoi panni, cercando di guardarlo come un essere umano con i suoi limiti e le sue fragilità. Tutti questi aspetti magnificano senza meno la sua grande capacità di prendersi cura dei suoi cari, qualità ereditata da suo zio Alfonso, il Santo Padre Callisto III, che fu Papa dal 1455 al 1458. Del resto, quale padre non vorrebbe vedere i propri figli sistemati? Trovandovi nella sua posizione, non vi sareste comportati allo stesso modo? Non avreste anche voi fatto carte false per vedere i vostri pargoletti con un posto di lavoro fisso? E’ ora di porre fine a questa ipocrisia: voi non siete tanto diversi dal Santo Padre Alessandro VI. Anzi, siete peggiori e indegni della nostra stima. Perché non siete neppure papi.

Veniamo ora all’accusa infamante che la storia continua ancora oggi a muovere nei confronti del duecentotredicesimo successore di Pietro: la simonia. A detta dei maligni, o forse sarebbe meglio definirli invidiosi e rancorosi, Rodrigo Borgia avrebbe ottenuto il ruolo di Pontefice Massimo per mezzo di compravendita di cariche ecclesiastiche. Ed è qui che la nostra rubrica vuole andare al nocciolo della sua ascesa al potere, prendendo le sue difese, sapendo che, ormai defunto, non è più in grado di farlo. Quest’uomo aveva un bisogno imperante di essere riconosciuto e amato. Probabilmente, è stato un bambino poco coccolato. I suoi genitori, Jofré Llançol i Escrivà e Isabel de Borja y Cavanilles, non gli avranno dato la tenerezza e le attenzioni che da piccolo meritava. Aveva dunque senz’altro  la necessità di sopperire a tale carenza, cercando di rendersi visibile al mondo, in modo da saziare la sua giustificatissima fame d’amore, seguendo, a nostro avviso, un altro dei bellissimi comandamenti di Cristo, come splendidamente descritto in Matteo 18,2-6: Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me. Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare.

A questo, aggiungiamo che qualsiasi bambino irrequieto e inascoltato, come poteva esserlo il piccolo Rodrigo, tende all’introspezione e ad ascoltare con maggiore attenzione e profondità la propria vocazione. Per dirla con le parole dello psicanalista James Hillman, Rodrigo rispose prontamente alla chiamata del suo Daimon. Egli non voleva e non doveva essere un mediocre, era un uomo con delle idee, un leader nato. Sapeva che la sua elezione al soglio pontificio avrebbe dato lustro e vigore alla Chiesa Cattolica. C’è chi parla ingiustamente di lotte e di rivalità tra lui e Giuliano della Rovere, che divenne poi papa dal 1503 al 1513 con il nome di Giulio II, ma tutto questo è falso. Borgia era il prescelto e fu eletto per opera del soffio dello Spirito Santo. Fu il volere del Signore a portarlo al vertice della Chiesa. E la sua forza era la sua famiglia, affiatata e unita da un amore al limite del carnale, come ci insegna il meraviglioso ed emozionante rapporto che Rodrigo aveva con la figlia Lucrezia e il figlio Cesare.

Aggiungiamo inoltre questo: Alessandro VI, come qualsiasi nuovo amministratore delegato, una volta eletto, ebbe profondamente a cuore il futuro della sua azienda. Fu questo uno dei motivi per cui, nei suoi concistori, tra gli innumerevoli cardinali nominati, la gran parte erano suoi parenti. Lo ribadiamo una volta per tutte: la sua politica non si può definire nepotista. Proviamo invece a cambiare punto di vista: Borgia volle creare un’impresa a gestione familiare. Pensateci. Le aziende familiari, al giorno d’oggi, costituiscono il nocciolo duro del tessuto industriale italiano e sono loro che muovono l’economia del Bel Paese e contribuiscono a incrementare il nostro PIL. Alessandro VI fu pertanto un pioniere, un precursore dell’imprenditoria italiana, un padre fondatore. Gli ottimi risultati si vedono tutt’ora al giorno d’oggi. L’Italia è senz’altro una grandissima potenza economica, che detta legge nell’Unione Europea, proprio grazie a questa mentalità imprenditoriale moderna e meritocratica. Del resto, è ben noto che il talento si trasmette geneticamente.

La sua grande forza veniva, inoltre, dalla sua profonda e genuina fede. Egli fu uomo pio e devoto, oltre che strenuo difensore dell’ortodossia cattolica. Il pontefice si preoccupò, nel corso del suo pontificato, di difendere la Chiesa contro le prepotenze di duchi e baroni, dispose alcuni provvedimenti volti a migliorare la condizione morale di alcuni enti monastici e si occupò anche di proteggere alcuni ordini religiosi. Ebbe a cuore la conversione delle popolazioni amerinde e fu protettore degli Ebrei. In merito a quest’ultimo punto, un uomo con una tale personalità, negli anni del Nazionalsocialismo in Germania, avrebbe senz’altro dato filo da torcere ad Adolf Hitler. A questo proposito, gli ebrei gli dimostrarono immensa riconoscenza, elargendo donazioni in denaro verso la Chiesa, che i maligni interpretano erroneamente e in maniera diffamatoria come prestiti atti al finanziamento delle campagne militari del figlio Cesare Borgia. Non dimentichiamo, infine, i rapporti epistolari che il pontefice aveva con la beata Colomba da Rieti, la proclamazione del Giubileo del 1500 e il mecenatismo di cui fu artefice, che tanto bene fece all’arte rinascimentale. Pochi sanno infatti che fu proprio Alessandro VI a commissionare la Pietà di Michelangelo.

Chiudiamo la nostra rubrica con quanto scritto in Matteo 10, 16:

Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.

Rodrigo Borgia, a causa della sua fede e del suo talento, era consapevole che sarebbe stato un uomo invidiato e perseguitato. Applicava pertanto alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e di Nostro Signore Gesù Cristo.

Prega per noi, Santo Padre.

Avere Fede

Osserva prudente,
con fare elegante.
In cerca d’amante,
ha un cuore sfuggente.

Con calmo riserbo,
rifugge il patire.
Le è noto soffrire?
Non mette altro verbo.

La vita non scorre,
bramando il potere.
Son illusion mere,
paura non porre.

Respira e rilascia,
la senti la gioia,
che eclissa la noia,
che spenge e che accascia?

Sinuosa seduce,
la pelle olivastra,
il bianco contrasta
e insieme ricuce.

Sorride, poi scappa,
si chiede chi siamo.
Silenti attendiamo,
la prossima tappa.

Una Dea Pagana

Quando incrociamo qualcuno che improvvisamente ci fa da specchio, l’effetto è al pari di un lieve quanto incontrastabile e irresistibile soffio su un castello di carte: tutto quello che abbiamo costruito finora rischia di collassare inesorabilmente e di farci precipitare in un tunnel buio all’interno del quale è difficile intravedere l’uscita.

Basta un incontro determinante, a rimuovere la pietra angolare delle nostre presunte certezze. Ma, per l’appunto, sono davvero le nostre certezze, o piuttosto le aspettative che il mondo esterno ha su di noi?

Siamo davvero così coraggiosi, risoluti e determinati, efficienti, orientati all’obiettivo, ambiziosi, come narcisisticamente ed egoisticamente ci definiamo? Al contrario, abbiamo il fegato di attraversare quel tunnel oscuro, senz’altro lungo e apparentemente senza fine, ma con il grosso rischio di uscirne rinati? E di morire per risorgere? E di deporre le armi e di mostrarci fragili e nudi?

Ciò che ci incuriosisce, ci intriga e ci interessa ha un grande potere su di noi. Ed è per questo che al contempo lo detestiamo.

 

 

Riscriviamo la Storia

Aprirà a breve una nuova rubrica: Riscriviamo la Storia.

L’obiettivo sarà quello di imparare a valutare i lati positivi e le azioni di alcuni personaggi storici, anche di quelli apparentemente più controversi.

Giudichiamo spesso con frettolosità le azioni e i comportamenti altrui, sapendo che fondamentalmente lo facciamo per sentirci migliori. Ma in Luca 6, 41-42, nostro Signore Gesù Cristo ci dà un insegnamento molto chiaro: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.” 

Ecco: questo è quello che ha sempre fatto la storia. Dividere in maniera nevrotica e dicotomica il mondo in vincitori e vinti, eliminando qualsiasi sfumatura. Perché i vincitori si sentono sempre più buoni dei vinti, quando dovremmo imparare tutti a guardarci dentro, sapendo che dietro le azioni più riprovevoli, non si nasconde che un grande dolore, una profonda ferita narcisistica, un bambino non amato o troppo amato.

Il progetto che persegue questa rubrica è ambizioso: creare una nuova via per il perdono e la tolleranza, che ci porti a valutare l’esercizio della violenza come una delle tante possibilità di esprimere il proprio dolore interiore. Fondamentalmente, la conquista di nuove terre, la presa e l’esercizio del potere, la repressione dei diritti democratici e l’instaurazione di un regime totalitario, si possono senz’altro considerare un fanciullesco e giocoso atto creativo, come può esserlo dipingere, scolpire, cantare e scrivere.

Questo progetto vuol dare vita a una cultura storica innovativa, al contempo cristiana e junghiana, che veda la guerra e la repressione come una forma d’arte e al contempo abbia come solide radici il perdono e la pace verso e con i nostri lati oscuri, proiettati generalmente sui vinti perché inaccettabili.

Perché nessuno si può davvero considerare consapevolmente malvagio.